Ho visitato più volte Raffaello e gli amici di Urbino come si legge e rilegge un ottimo romanzo. La mostra, curata da Barbara Agosti e Silvia Ginzburg, è allestita a Palazzo Ducale di Urbino fino al 19 gennaio. L’intreccio si gioca sugli scambi e sulle esperienze comuni di Timoteo Viti, Girolamo Genga e Raffaello lungo le trame dell’eccezionale sviluppo di quest’ultimo e le reazioni divergenti dei due amici di fronte alle novità della «maniera moderna». Una rassegna possibile grazie al concerto di ricerche recenti e un impegno nella formulazione che, su vari livelli e senza battere strade troppo note o scontate, insegna molto e sollecita nuove indagini.
Nel primo atto si ricrea Urbino tra la morte di Federico di Montefeltro e l’età di Guidobaldo, un mondo cortese strutturato sull’eredità dei maggiori umanisti di fine Quattrocento, dove gli esempi del passato si combinano in forme nuove, nel campo delle lettere come nel campo delle arti figurative. Il Sanzio deve a questo mondo quel suo modo peculiare di assimilazione che fa correre così rapido il suo sguardo, la sua mente e la sua mano da un modello all’altro, da un esempio all’altro. Si sa poco dei suoi primissimi anni di lavoro ma si riconoscono i primi di questi modelli in Perugino, Signorelli e Pinturicchio. A Perugino, e quindi alla cultura fiorentina e verrocchiesca della quale era portatore, il giovane Sanzio arrivò per il tramite del padre Giovanni. Il rapporto con Pietro Vannucci dovette però presto approfondirsi con scambi che si misurano su rari disegni e in opere come la predella, ora in mostra, della Pala di Fano, terminata nel 1497. Nel frattempo Viti torna da Bologna. Nella città felsinea si era formato con Francesco Francia, il pittore allora all’avanguardia, con Perugino, nell’uso di quella nuova, ricercata «dolcezza ne’ colori unita» – dirà Vasari – che è un insieme armonico di ideali classicheggianti ed emulazione della natura. Una formula di grande successo che, come si vede nel percorso iniziale dell’esposizione, è essenziale per lo sviluppo di Timoteo quanto di Raffaello e Girolamo.
Nella seconda sezione ci si sposta idealmente a Siena seguendo Raffaello che vi giunge nell’autunno-inverno del 1502 per la nota impresa della Libreria Piccolomini. È Pinturicchio questa volta a sfruttare la straordinaria abilità inventiva del giovane urbinate. Lì il Sanzio allaccia nuovi rapporti. Seguendo il racconto vasariano si riescono a immaginare le chiacchierate con alcuni pittori quasi coetanei come Sodoma e Beccafumi: tra questi giovani artisti dovette montare presto il fermento per la Battaglia di Anghiari in corso di preparazione da parte di Leonardo, tanto da giustificare una prima fugace scappata a Firenze. Più avanti Raffaello, nella città sull’Arno in pianta stabile, si accostò a Fra Bartolomeo eleggendo ora lui e Leonardo a propri modelli, emancipandosi così dalla lezione di Perugino. Grazie all’esempio leonardesco il disegno diventa parte di un processo inventivo che procede per via di sperimentazioni rapide, dominate dalle ricerche sui rapporti tra le figure mosse da relazioni sentimentali, dai moti dell’anima.
Si aggancia ora anche un interesse travolgente per Michelangelo. Gli impressionanti scarti in avanti di questi anni fiorentini sono raccolti anche dai vecchi maestri come Fra Bartolomeo e anche per loro tramite trasferiti a Genga. Genga, in questa narrazione sincronica, si sta facendo valere a Siena, accanto a Pinturicchio e al vecchio Signorelli. Tra 1508 e 1509 il suo linguaggio assume toni più morbidi e una naturalezza che gli viene dai rapporti con Viti e da un prima comprensione delle novità di Raffaello. Il passaggio dalla Siena di Beccafumi e Sodoma alla Firenze di Raffaello e Fra Bartolomeo si coglie nello scarto che, intorno al 1510, si legge nella Madonna con il Bambino e San Giovannino in collezione Alana e in quella della Pinacoteca Nazionale di Siena, entrambe esposte. Nella prima tavola le forme sono nettamente stagliate, tornite con un vistoso senso di tridimensionalità, nell’altra le figure sono calate in un’aria densa che le armonizza al paesaggio. Da quella dolcezza più zuccherosa emerge uno studio approfondito delle opere di Raffaello di qualche anno prima. Così Genga abbandona definitivamente il suo retaggio più arcaico entrando nella «maniera moderna».
Per accostamenti giudiziosi e confronti parlanti si continuano a seguire le strade dei tre amici nel secondo decennio del secolo: la Madonna Mackintosh con il suo cartone, la Madonna Aldobrandini e ancora le reazioni di chi, come Genga – o, più passivamente, Domenico Alfani – attinge a piene mani a opere come queste, al Trasporto Baglioni, ai capisaldi di Michelangelo e Leonardo, ai disegni di Fra Bartolomeo studiati a Firenze, arrivando a rimasticarli con le proprie inquietudini in un eclettismo libero e spregiudicato.
Intanto, tra 1510 e 1511, Viti raggiunge Raffaello a Roma per affiancarlo nel cantiere della cappella di Agostino Chigi in Santa Maria della Pace. L’esperienza scuote appena Timoteo: si vede nel successivo Noli me tangere di Cagli. Il pittore raccoglie le forze togliendosi per un attimo dal proprio torpore, ma già si sta appoggiando ad alcuni dei disegni raccolti nei mesi accanto al Sanzio. Con queste invenzioni raffaellesche e con i suoi modi di sempre camperà per tutto il resto della carriera, ormai lontano dagli amici urbinati che si stanno spendendo in attività sempre più spettacolari, tappe fondamentali per l’evoluzione della pittura moderna.
Nel mentre Girolamo passa le ore nella bottega di Fra Bartolomeo. Incrocia vecchie conoscenze come Beccafumi, nuove leve come Rosso e, con tutti loro, subisce il fascino dell’incompiuta Madonna del Baldacchino di Raffaello. Nella quinta sala dell’esposizione si raccoglie il possibile sulla Disputa dei dottori oggi a Brera, il capolavoro di Genga inamovibile per dimensioni e delicatezza. È una mostra nella mostra, una delle tante parentesi che si sono splendidamente aperte nel procedere del racconto. L’Annunciazione, ora esposta, è il solo pezzo ancora in situ dell’enorme ancona commissionata a Genga nel 1513 dagli Agostiniani di Cesena che accoglieva la Disputa. L’angelo è sospeso a mezz’aria da fili invisibili o come immerso in un fluido. È un richiamo diretto a Raffaello passato attraverso uno sguardo ormai carico di esperienze, una grande voglia di sperimentare, tanti interessi e poche remore.
L’ultimo atto ha prima Roma poi Pesaro sullo sfondo. Raffaello muore nell’aprile del 1520. Genga lascia Cesena e si trasferisce nell’Urbe intorno a quella data. Riallaccia i contatti con la cerchia senese dei Chigi e per il cardinale Sigismondo realizza la Resurrezione di Cristo e il Matrimonio mistico di Santa Caterina da Siena e San Bernardino, quest’ultimo ora esposto a Urbino. Il testa a testa con il Raffaello estremo spinge Genga a vertici espressivi originalissimi. Vale il confronto con il cartone per la Lapidazione di Santo Stefano terminato da Giulio Romano, dove il senso di dramma è accentuato dall’insistenza sul chiaroscuro e dai dinamismi esibiti.
È una delle ultime lezioni del Sanzio intercettate da Girolamo prima del ritorno nelle Marche, dove comincia il suo impegno per il duca all’Imperiale di Pesaro. Nel mentre Giulio si trasferisce a Mantova lasciando molto materiale di bottega – tra cui probabilmente il cartone della Lapidazione – al proprio discepolo, già aiuto per le pareti della Sala di Costantino, Raffaellino del Colle. Al principio degli anni trenta anche Raffaellino è chiamato a partecipare all’impresa dell’Imperiale supervisionata da Genga, un cantiere modellato su quello organizzato dal Sanzio nelle logge di Leone X. Lungo il decennio Raffaellino continuerà ad attingere dal fascio di fogli ereditato da Giulio, traghettando il lascito dell’ultimo Raffaello leonino nel contesto marchigiano. È su di lui e con quest’ultimo intreccio che si conclude l’esposizione. E resta la voglia, come nei libri più belli letti d’un fiato, di ripercorrerla dall’inizio: nessuna rilettura sarà tempo perso.