E’ forse il suggerimento di un percorso iniziatico quello descritto da Davide Susanetti in Luce delle Muse La sapienza greca e la magia della parola (Bompiani «Saggi», pp. 329, e 19,00). È sicuramente un percorso di consapevolezza, coerente con gli interessi dello studioso e attraverso cui sperimentare la perfezione e compiutezza dell’essere, ritrovare la sacralità della parola e del silenzio estatico, il momento di grazia che traccia la via per l’immersione profonda in una realtà finalmente e percettivamente non franta. Ma è anche una presa di posizione e una scelta di intervento contro l’urlo e lo stordimento del momento politico attuale, che vede i soggetti «prigionieri di un antro buio», contro l’inganno ipnotizzante dei media che serve ad affatturare le menti con le armi della persuasione: quell’apáte, quell’inganno che Gorgia, in periodo classico, individua come irrimediabile allontanamento dalla verità. È l’alternativa della parola di miele delle Muse che fa assaporare a chi sappia disporsi ad ascoltarla la dolcezza della loro voce incessante e riconoscere che quel divino dislocamento può ancora radicare la comunità nell’intuizione «viva e sovrarazionale dell’anima del mondo».
Il miele, d’altronde, è un elemento presente nei rituali misterici e nelle sacre iniziazioni. E méli, miele, consuona con mélos, canto. Le Muse sono forme di intensità (da ménos e manía), potenze del pensiero che brama sapere, e sono in grado di praticare una forma di iniziazione (Diodoro Siculo accosta l’etimo di Musa a múein, «iniziare»). Le Muse hanno, e concedono, la parola ‘efficace’ che agisce sulla realtà, la crea e ne intona il movimento perpetuo, la fa essere un kósmos, ordine e ordinamento; perché le figlie di Zeus e Mnemosúne conoscono simultaneamente il passato, il presente e il futuro. Elargendo i loro doni ai cantori o ai poeti li fanno librare nell’aria su un carro alato che schiude le porte degli inni, direbbe Pindaro, e li affratellano in qualche modo allo sciamano. «La verità abita solo nel canto», non nel logos privo di ispirazione (come ci ricorda anche Esiodo nella Teogonia).
Per agire sulla realtà, si diceva, c’è dunque bisogno di una parola ‘efficace’ come quella melodiosa di Orfeo, non a caso figlio di una Musa, che sa entrare in comunione con la natura e padroneggiarla. A lui tutto si piega, la sua cetra vibra e incanta. Orfeo conosce i suoni del cosmo e, riproducendoli, li legittima, li genera e li celebra. La sua voce penetra ogni regno, persino quello della morte, tanto che Persefone e Plutone gli concedono di poter riportare in vita l’amata Euridice, novella sposa subito morsa da un serpente. La musica, la magia orfica è conoscenza e realizzazione integrale. Cos’è, dunque, a partire da Virgilio, a determinarne lo scacco? «L’incoerenza e lo smarrimento che abitano il mago-cantore», osserva Susanetti, perché Orfeo «cede al proprio desiderio o alla propria paura» e non rispetta i dettami del rito che gli impone di non voltarsi a controllare se Euridice lo stia seguendo. La sua magia fallisce non essendo egli in grado di mantenere neutralità e volontà pura. Verrà quindi sbranato dalle menadi, ma rimarrà comunque, grazie al suo legame con Dioniso, una testa che canta, una testimonianza di quanto la poesia sia una potenza salda, la rima che permette di vedersi e di rendere il buio echeggiante, parafrasando lo Seamus Heaney di Elicona personale.
Anche il poeta nordirlandese si avvicinò, più volte, alla figura di Orfeo. In The Midnight Verdict, ad esempio, intrecciò le sue vicende – due passi presi dalle Metamorfosi di Ovidio (libri X e XI) – a quella del poeta descritto nel poemetto Cúirt an Mheán Oíche (The Midnight Court, 1780) di Brian Merriman. Un’operazione di travaso della classicità che, come la testa di Orfeo, continua a far risuonare le sue malie e, cantando l’origine, non solo si riconnette alle radici e alla sacralità della parola e della vita, recando conforto all’uomo e al suo travaglio, ma dimostra anche quanto l’alterità di una cultura «straniera» possa essere felicemente innervata nella propria, infrangendo così le barriere che ottundono la mente e rendendo evidente la scissura tra realtà e apparenza. La poesia, per Heaney, è inclusività, e secondo Susanetti permette di mutare radicalmente il proprio sguardo: è «un potere che reintegra l’uomo alla pienezza dell’essere». Solo a partire da quella vibrazione, sembra suggerire il grecista, diventa possibile imprimere la propria dúnamis, potenza, e il magnetismo che il poeta sa esercitare, per convertire la rabbia e il disagio paralizzante nel sortilegio (thélxis) che sa dischiudere l’eraclitea nascosta armonia degli estremi, e diventare, consapevolmente, anelli di una catena umana e dunque padroni del proprio dire e del proprio destino. Perché «non si tratta di rinunciare alla poesia», scrive Susanetti a proposito dei dialoghi e del pensiero platonico, «ma di operare una ‘integrazione’ tra i piani e le dimensioni della psuché», che dimostri ancora la sostanziale affinità di musica e leggi. Quel legame musaico che, creato, Dante non sopportava venisse in alcun modo compromesso.