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L’universo parallelo di John Lurie

L’universo parallelo di John LurieJohn Lurie

Pagine/L’artista newyorkese ha pubblicato un libro autobiografico, «The History of Bones» Fondatore della band Lounge Lizards, è stato, a cavallo tra gli anni ’70 e ’80, esponente di spicco della scena «no wave»

Pubblicato più di 2 anni faEdizione del 26 febbraio 2022

Inevitabile identificare John Lurie, con le sue inconfondibili silhouette e mimica facciale, nel film Down by Law del 1986 di Jim Jarmusch, in prigione con i due compari fuggiaschi (Roberto Benigni e Tom Waits), mentre intona il mantra «I scream, you scream, we all scream for ice cream», innestando una specie di goliardica mini rivolta (inconsapevole o forse molto consapevole metafora di come sia particolarmente semplice fare la rivoluzione). Espressione ieratica, ironica e sardonica, indimenticabile, portamento tra il regale e il teppistico. Al suo attivo anche un’altra grande interpretazione, sempre sotto la guida di Jim Jarmusch, nello stupendo Stranger than Paradise del 1984 e una serie di apparizioni ne Il piccolo diavolo di Benigni, Mystery Train, L’ultima tentazione di Cristo di Martin Scorsese. Ma John Lurie è stato ed è, soprattutto, un grande musicista. Che, ad esempio, di molti film ha curato, composto e suonato la colonna sonora. È anche un apprezzato pittore che lo ha portato a condurre una seguita trasmissione di successo, Painting with John, dove intrattiene il pubblico con riflessioni varie mentre dipinge. Ora è la volta di un irresistibile libro di memorie (non ancora pubblicato in Italia ma facilmente intelleggibile nel suo inglese semplice e diretto), The History of Bones. A Memoir, pubblicato da Random House. John riesce a raccontare con un’incredibile ironia, doppi sensi e un ritmo travolgente, un’infanzia e un’adolescenza vissute in un disagio e alienazione difficilmente immaginabili e una carriera con pochi eguali.

The History of Bones: A Memoir, l’autobiografia di John Lurie

Il suo racconto ne fa una sorta di Forrest Gump in acido. «Alle 4 del pomeriggio in Main Street a Worcester, Massachusetts, l’universo mi diede il mio primo sassofono. Non successe niente di speciale, solo che un uomo, che girava con una carriola, mi regalò un sassofono… diventai come un monaco, dormivo sul pavimento, non avevo la tv, non fumavo, non bevevo, non mangiavo carne, zucchero, non facevo sesso. Suonavo il sax fino a farmi sanguinare le labbra. Divoravo musica tradizionale di Bali e del Tibet, Stravinsky, Varèse, Mingus, Coltrane, Messiaen, Dolphy, Monk, Parker, Ornette Coleman, Hendrix».

 

«FAKE JAZZ»
La sua carriera di musicista nasce alla fine degli anni Settanta quando fonda i Lounge Lizards, un gruppo di jazz o meglio, come veniva (auto)definito, spesso in modo dispregiativo, di «fake jazz». La band proponeva infatti una forma di jazz contaminato, niente meno che dalle asperità punk e new wave della scena newyorkese, quella che fu definita «no wave» e che attirò l’attenzione di un luminare come Brian Eno (che produsse la raccolta No New York, dedicata ad alcuni dei principali esponenti della corrente). Gruppi come i DNA di Arto Lindsay o Teenage Jesus and The Jerks di Lydia Lunch e i Contortions di James Chance presero sperimentazione, funk, assalto punk, new wave, noise e frullarono tutto in una pozione venefica che lasciò dischi abrasivi, ancora oggi attuali, che influenzarono generazioni di musicisti a seguire. «A 17 anni qualcuno mi fece ascoltare John Coltrane e fu come se mi stesse parlando in cinese. Ma come? C’è una musica che non riesco a capire? E così incominciai ad ascoltarla in continuazione». È un periodo rivoluzionario nella Big Apple ma non solo. Come ha scritto il giornalista Edmund White sul New York Times: «Questo è stato l’ultimo periodo nella cultura americana in cui la distinzione tra intellettuale e grossolano era ancora pertinente, quando scrittori, pittori e persone di teatro volevano ancora essere (o erano disposti a essere) martiri dell’arte».
Il punk ha da poco aperto strade insospettabili fino a poco tempo prima, convogliando nella sua scia un gran numero di giovani artisti che trovano finalmente una modalità di espressione, all’insegna del DIY e della possibilità di proporre la propria arte liberamente, senza legami con il mainstream. Il «punk» newyorkese è in realtà un crogiuolo di influenze e di entità unite dalla stessa attitudine ma non di rado lontanissime da un punto di vista musicale e sonoro. Pensiamo all’assalto duro e veloce di Ramones e Dead Boys, confrontato con le istanze funk contaminate di Talking Heads e Bush Tetras, il rock aspro e intellettuale di Patti Smith con le devianze latine dei Mink Deville, il minimalismo psichedelico dei Television, l’apocalisse elettronica dei Suicide e il pop di derivazione Sixties dei Blondie. Ma è un periodo in cui New York assorbe (e restituisce) le vibrazioni creative non solo dell’underground ma anche del mainstream che qui si contamina e arricchisce. L’elenco è lungo ma è nelle discoteche della Big Apple che Mick Jagger trova l’ispirazione per spingere gli Stones verso sonorità più disco music (Miss You e Emotional Rescue, tra le cause della frattura quasi insanabile, ai tempi, con Keith Richards). Ma da queste parti, reduci dai capolavori berlinesi con David Bowie, approdano anche Brian Eno, per produrre, nel 1978, i Talking Heads ma anche il re dei King Crimson, Robert Fripp, pure lui a fianco della band di David Byrne e in Parallel Lines dei Blondie. Sono anni in cui pulsano i primi germi del rap che sfonderanno nel nuovo, rivoluzionario, album dei Clash, Sandinista!, che incominceranno a registrare proprio in città. Nel frattempo il «signore di New York» per eccellenza, Lou Reed, incide capolavori tossici che potevano nascere solo qui, come Street Hassle, il ruvidissimo Live: Take No Prisoners o The Bells che fanno seguito a Coney Island Baby. Robert Mapplethorpe amoreggia con Patti Smith e intanto immortala la fauna dell’epoca con il suo occhio fotografico totalmente newyorkese. Il Colab (Collective Projetcs Inc) organizza mostre (in particolare il Times Square Show) con giovani artisti, destinati a diventare famosi, come Jenny Holzer, Nan Goldin, Keith Haring, Kenny Scharf, Jean-Michel Basquiat e Kiki Smith. «Stavamo tutti cercando di portare fuori l’arte dalle gallerie e proporla sulla strada. L’importanza del luogo è stato poter camminare per la 42ma Strada e vedere la cultura pop declinata attraverso film da tre dollari, blaxploitation, negozi di pornografia, prostitute, gang e droghe… ci ha permesso di parlare del ventre della cultura». (Tom Otterness).

QUATTORDICI ISOLATI
Sottolinea ancora White: «Il mondo culturale – almeno quello che contava – era molto più piccolo allora. I pittori conoscevano i musicisti che conoscevano gli scrittori ed erano tutti facilmente accessibili». Secondo la scrittrice Fran Lebowitz «tutti coloro che leggevano Interview, il periodico curato da Andy Warhol e Gerald Malanga, si conoscevano, eppure questo piccolo mondo ha avuto un’influenza duratura sul gusto e sulla musica americana, sulla pittura, sulla poesia e sui divertimenti. In questi anni si origina il Downtown Scene, movimento multidisciplinare e simultaneo che aveva sede nell’East Village, caratterizzato dalla nascita della musica punk, del giornalismo gonzo e della pittura usa e getta; dalla body art e dalle disordinate buffonate teatrali di La MaMa».
John Lurie, diretto protagonista riesce a rappresentare l’epoca in poche parole: «Eravamo così sicuri di noi stessi, non abbiamo mai dubitato di nulla. Eravamo potenti, intelligenti, energici, fiduciosi, egocentrici e incredibilmente ingenui. Niente al di fuori del nostro raggio di quattordici isolati aveva importanza. Da Houston alla 14ma Strada, dalla Bowery alla Avenue A, quello era l’unico universo. A quel tempo nell’East Village nessuno faceva quello che sapeva fare. Ad esempio tutti i pittori avevano delle band anche se riuscivano a malapena ad accordare le loro chitarre. Studiare il sassofono quattro ore al giorno era pesantemente deriso. Ho dovuto nascondere il fatto che sapevo suonare e che ci lavoravo ogni giorno». Gli artisti della scena collaborano, si incontrano, fondono esperienze, vite, creatività: «Jean-Michel Basquiat ha vissuto a casa mia sulla East 3rd St., per un paio d’anni, a fasi alterne. Gli ho dato da mangiare e gli ho dato un posto dove stare. Non mi è mai venuto in mente di prendermene il merito. Io e Jean-Michel dipingevamo spesso insieme e poi, magari, io mi esercitavo al sax e lui tornava a dipingere. C’era una meravigliosa, quasi bambinesca libertà nel modo in cui lavoravamo». Erano anni in cui gli affitti erano bassi, in cui aspiranti scrittori, cantanti, ballerini potevano permettersi di vivere nel villaggio di Manhattan, prima che tutti i marginali venissero ulteriormente emarginati e sostanzialmente espulsi verso altre zone mentre incominciava la selvaggia gentrificazione. Negli anni Settanta, creativi di ogni tipo potevano incontrarsi senza dovere per forza avere progetti comuni, scambiarsi consigli o discutere di teorie, mercati o movimenti che stavano esplodendo e crescendo. Paradossalmente Lurie coglie uno degli aspetti salienti: «New York ha certamente perso qualcosa. Per esempio: non è più pericolosa come una volta. Male. Prima dovevi essere un duro: ci voleva carattere per viverci. Adesso sembra un grande shopping mall per gente che si fa pagare l’affitto da papà e mamma». Ma ci sono altri aspetti che caratterizzano l’epoca, non solo a New York. Arrivano Aids ed eroina. «Le cose iniziarono a diventare cupe. La gente incominciò a morire. Molti per quello che veniva chiamato il “cancro dei gay”. L’urgenza e l’impunità scomparvero. Le cose incominciarono improvvisamente a essere pericolose». Lurie abbraccia volentieri l’etica e l’estetica della cocaina prima, dell’eroina poi e ci finisce dentro nel modo più disastroso. Come d’altronde in molti facevano ai tempi nel «giro». John se ne rende conto il giorno in cui muore Thelonious Monk, uno dei suoi riferimenti. Ma quando viene invitato al funerale non riesce a partecipare perché la priorità è trovare una dose per calmare la dipendenza. «Quando non puoi andare al funerale di Monk a causa dei tuoi problemi con l’eroina sei solo un patetico perdente». Ne uscirà a fatica ma anche in questo caso il libro ci restituisce pagine divertenti e ironiche.

SCHEGGE IMPAZZITE
I Lounge Lizards di John Lurie sono una delle schegge impazzite di questa esplosione di vitalità creativa. Meno radicali della scena no wave, più vicini a una forma di jazz tradizionale, mischiato al free jazz ma che non disdegnava la sperimentazione e l’approccio della new wave. Il gruppo, in cui, nel corso di una ventina di anni di carriera, passano artisti come Marc Ribot (poi alla corte di Tom Waits) e Arto Lindsay, mentre unici membri fissi rimangono John e il fratello Evan, incide una decina di album (buona parte dal vivo) e si fa ricordare come uno dei nomi più interessanti di quell’epoca. «Ascoltare James Chance and The Contortions mi ha liberato un po’. Il ruggito sottomesso di selvaggia dissonanza da parte della band mi ha aiutato a sfuggire dal peso di ciò che il jazz era diventato. Il mio cuore e le mie radici erano principalmente jazz e musica classica, ma dopo Coltrane sentivo che non c’era stato niente, nessuna voce grossa a spingerlo avanti. Il jazz ora si suonava per gente che cenava. La parola jazz era diventata sinonimo di noioso. Guidare una band è come essere un allenatore di basket: è un gioco, ma devi avere una certa disciplina e forma in modo che il divertimento possa venire fuori. Abbiamo fatto una prova, e io e Arto Lindsay eravamo dei punk, stavamo solo scherzando e poi Anton (il batterista) nelle prime prove, ci ha davvero preso a calci in culo come un sergente istruttore. Ci ha fatto provare, cosa che ai tempi del punk avresti storto il naso, ma era la cosa giusta da fare. Ma quando abbiamo iniziato a diventare bravi, abbiamo perso il nostro pubblico. Agli inizi il pubblico impazziva, eravamo la cosa che bisognava vedere. Poi, quando la musica è diventata più seria e migliore il nostro pubblico se ne è andato. Voglio dire, completamente. Quando abbiamo suonato al Tramp’s una sera, c’erano nove persone e ci è voluto molto tempo per riaverlo perché quando la musica è diventata più elegante è stata odiata. Non abbiamo mai preso piede negli Stati Uniti. Sono stati l’Europa e il Giappone a chiamarci ai festival jazz. Non siamo riusciti a ottenere un contratto discografico duraturo e non siamo stati prenotati in nessun festival jazz in America. Mi chiedo se accadrà quando avrò novant’anni o qualcosa del genere. Nell’ultimo periodo della nostra carriera abbiamo composto le cose migliori, che ancora adesso suonano innovative ma non avevamo uno straccio di contratto discografico e nemmeno i soldi per inciderle. È un peccato che quel materiale sia rimasto inedito».

A PESCA
John prosegue poi la sua attività come solista, compositore di colonne sonore, a capo della John Lurie National Orchestra. Si dedica a numerose parti come attore ma è anche protagonista, come conduttore, di un’ironica trasmissione televisiva, Fishing with John («A pesca con John») in cui accompagna alcuni personaggi famosi (ma piuttosto particolari) a pesca, tra cui Tom Waits, Jim Jarmusch, gli attori Matt Dillon e Dennis Hopper. Ma non è sufficiente. Si dedica anche alla pittura e con eccellenti risultati, riuscendo ad allestire mostre in parecchie città del globo (arrivò anche a Milano qualche anno fa), apprezzato e omaggiato dalla critica e dal pubblico. Anche se la predilezione per questa espressione artistica nasce da un dramma. Nel Duemila ha contratto una terribile malattia, la sindrome di Lyme, che ha incominciato a manifestarsi negli anni Novanta, sotto forma di un affaticamento cronico che i medici non riuscivano a spiegarsi. Alla fine, incapace di reggere i ritmi dei concerti, fu costretto a sospendere l’attività del gruppo ma senza avere particolari benefici. Solo nel 2006 furono trovate la causa e relative cure. Che anche se non lo hanno ristabilito, gli permettono comunque di lavorare alla pittura. Sorprendentemente è tornato però alla discografia qualche anno fa con un colpo di scena che ha sorpreso molti. Ormai impossibilitato a suonare il sax ha però ritrovato la capacità di impugnare la chitarra e di poter cantare e dopo 17 anni di silenzio ha dato seguito a un disco passato inosservato ai tempi, con il falso nome di Marvin Pontiac. The Asylum Tapes è un immaginario album che raccoglie presunte registrazioni perdute di questo personaggio inventato. Il tutto a base di un blues primitivo, «africano», che sembra arrivare da certe scricchiolanti registrazioni di qualche oscuro bluesman degli anni Quaranta. «Io non so cantare, così come non sono un attore. Posso farlo ma mi può venire davvero male. Un giorno quando ho finito di incidere tutte le voci mentre me ne stavo andando dallo studio ho visto che il tecnico del suono aveva scritto “tentativi di canto”». Un personaggio per il quale la parola «unico» non è sicuramente sprecata, in grado di riservare sorprese artistiche di indiscutibile livello qualitativo e che attraverso il libro svela scenari inediti che rendono giustizia alla caratura di un nome solo apparentemente secondario ma protagonista di un’epoca irripetibile e, per certi versi, ancora in parte da esplorare.

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