Sapevamo che Harold Bloom era molto malato da tempo, ma non che facesse ancora lezione a casa sua come è avvenuto giovedì scorso, l’11 ottobre, tre giorni prima della morte. Era nato l’11 luglio del 1930 a New York, erede dei grandi professori vittoriani come Arnold, Pater, Jowett, Newman, insegnava a Yale letteratura inglese e letteratura americana, conoscitore di greco e di ebraico, latino, yiddish, francese, spagnolo, portoghese, italiano. Alcuni di noi lo ricorderanno quando, molti anni fa, venne a un nostro convegno a Bologna, e seduto sui gradini continuò a lungo a dialogare con gli studenti.

LA SUA SPECIALITÀ di critico era l’ovattata violenza dei suoi improvvisi interventi critici, le scosse telluriche, i baratri, gli sconvolgimenti che di tanto in tanto era capace di imporre al tradizionale tran-tran delle storie letterarie. I nostri sonnacchiosi atenei furono chiamati in causa. Il primo libro a scuoterci fu L’angoscia dell’influenza del 1973, che angosciò appunto gli eredi moderni delle ricchezze passate, irriconoscenti del grande debito. Trovò l’opposizione di quanti erano esperti del tema – i moderni sulle spalle degli antichi – che era stato di Boileau e Swift all’inizio del Settecento, ma mescolato a Freud diventava un manifesto incendiario, e più che moderno. Poetry and Repression del 1976 mi aiutò a comprendere quale sia il tempo della poesia. «Keats ci dà una precocità che funziona come tardività», al contrario di Milton che sacrifica il presente per acquisire uno statuto ontologico che lo premia.

In Rovinare le sacre verità Poesia e fede ci imbattemmo nell’oscuro (per alcuni di noi, almeno) termine fatticità (facticity). «Con la parola “fatticità” intendo la condizione di chi è intrappolato in una attualità o contingenza che costituisce un contesto ineluttabile e immodificabile. Non intendo fatticità nel senso che Heidegger dà al termine… ma una contingenza rozza, inerente a tutte le origini in quanto tali». Le pagine su Kafka e Beckett, ma anche sui romantici inglesi, sono ricche di correlazioni preziose, somiglianze impreviste. «L’alone dei poeti della sensibilità e del sublime ha pervaso in seguito tutta la poesia anglo-americana, in parte attraverso i loro discendenti romantici nel pericolante equilibrio e nei destini spesso catastrofici di questi poeti proni al disastro». Inutile aggiungere che fu critico distante anni luce da scuole, correnti, influssi. E non risparmiò condanne perentorie a scrittori già affermati come Doris Lessing, Toni Morrison, e premi Nobel come Le Clézio e Dario Fo.

NIENTE DEI TANTI nuovi indirizzi della critica lo preoccupava, essendo lui seduto, disse in un’occasione recente, su una pila, una colonna, di classici, di libri per sempre, elencati nel Canone occidentale, una intemerata e superba difesa della cultura alta occidentale, al cui centro mette Dante e Shakespeare, più ventisei autori da scegliere il giorno in cui, fuggendo dai nemici, dovessimo approdare su un’isola deserta. Un’altra potente scossa l’ha data al culto di Shakespeare, troppo chiuso nei recinti accademici, pedinato dai filologi che vorrebbero sapere quanto abbia veramente scritto lui stesso o quanto i suoi testi siano il contributo di un collaboratore o lo spontaneo sberleffo di un attore malmesso, in certe produzioni teatrali che si propongono di superare l’insuperabile. Bloom non esita a definire Shakespeare lo «scrittore degli scrittori», «Dio», colui che ci ha fatto moderni, che ci ha fatto umani. Qualcuno ha tentato di ribellarsi, ma è stato messo a tacere dai tanti convegni, dai tanti giovani promettenti che debbono pur scrivere tesine e tesi su qualche aspetto ancora ignorato del grande idolo. Temo che si finirà per esaurirlo, e bisognerà riportarlo alla luce smorzata della caverna originaria, della fatticità della tribù. Alcuni suoi personaggi (Macbeth, Falstaff, Otello) sono già su quella strada, e le storiacce che lui trattò potrebbero tornare a quella prima rozza gestazione, pronte a tornare in strada.

UN GRANDE MERITO di Bloom è quello in realtà di essere stato uno studioso ecumenico, di aver amato tutti e tutto quello che nel fantastico non-mondo della letteratura ha preso nei secoli stabile dimora. E lo ha dimostrato per anni anche dirigendo la collana «Modern Critical Views» della Chelsea House Publishers di Filadelfia, dove ogni volume raccoglie i migliori saggi critici sul singolo autore, e per ognuno Bloom ha scritto la sua illuminante introduzione.

GLI AUTORI SONO MOLTI, e di tutte le provenienze: c’è Dante ma anche Agata Christie, Kipling che per Bloom ha affinità estetiche con Pater; c’è il suo Wilde, una versione fantastica di commediografi settecenteschi, c’è Wordsworth, che con la sua immaginazione lo fa pensare a una poesia di Wallace Stevens. Quel che più l’offende della Twelfth Night è la deliberata parodia che Shakespeare fa della sua commedia, il danno alla rappresentazione e a una possibile imitazione. Harold Bloom, critico tanto estroso quanto colto, col tempo sarebbe forse evaso lui stesso dall’incantato recinto della cultura alta occidentale.