A cento anni dalla presa del Palazzo d’inverno è tempo di tornare all’inizio di quell’esperienza tragica che è stato il «comunismo di stato». È questo il prologo del saggio scritto da Pierre Dardot e Christian Laval dal titolo programmatico Il potere ai soviet (DeriveApprodi, pp. 174, euro 15 – traduzione di Antonello Ciervo e Lorenzo Coccoli; il libro sarà presentato oggi a Roma in un incontro tra Mario Tronti e Pierre Dardot presso la libreria Odradek, in via dei Banchi vecchi, alle ore 18).

I DUE FILOSOFI FRANCESI non hanno remore a scrivere che il socialismo reale è stata una delle esperienze che, in nome della liberazione dell’umanità dallo sfruttamento, ha costruito soffocanti società autoritarie dove i gulag erano la sperimentazione delle nuove relazioni sociali. Ed è per queste ragioni che non è concessa nessuna nostalgia o apologia della Russia sovietica o della Cina maoista.

Il volume, dunque, non asseconda le letture che hanno individuato nella arretratezza della Russia zarista e nella durezza della guerra civile che accompagna i primi anni dopo la presa del potere dei bolscevichi, i motivi della degenerazione della Rivoluzione nell’oppressione sistematica del «comunismo di stato». Dardot e Laval non sono neppure interessati a distinguere Lenin dal suo successore, Stalin.

Né salvano Lev Trotski, autore e dirigente politico al quale si ispiravano le esperienze politiche che hanno condiviso in gioventù.

I due filosofi lo ripetono incessantemente per tutto il libro: a cento anni di distanza è tempo di tornare all’inizio perché è lì che ci sono tutti gli elementi che spiegano la tragedia sovietica. In altri termini: è nella teoria politica leninista che si annida quel che poi sarebbe accaduto con Stalin.

Per Dardot e Laval la presa del Palazzo d’inverno non è niente altro che un colpo di stato perché Lenin riusciva a immaginare solo una rivoluzione politica che aveva il suo acme nella conquista del potere politico e amministrativo dello Stato. Era attraverso lo stato che poteva essere instaurato (per legge?) il comunismo. E chi prospettava il linkage tra rivoluzione sociale e rivoluzione politica, veniva liquidato da Lenin come un infantile estremista. Inoltre il partito comunista, l’avanguardia e il mezzo per portare dall’esterno la coscienza di classe al proletariato, non poteva che sviluppare, gestendolo, un capitalismo di stato: detto brutalmente, il comunismo non è che un capitalismo di stato gestito dal partito comunista. Una semplificazione, questa, che non aiuta certo a comprendere sia i limiti dell’ottobre sovietico che la necessaria elaborazione di istituzioni che non chiudono la dialettica tra potere costituito e potere costituente.

MA IL DISPOSITIVO teorico dei due autori non accetta il luogo comune della tradizione comunista che vede la teoria leninista del politico come un processo scandito in due tempi: quello della necessaria transizione (la presa del potere, l’uso dello stato per dare forma ai bisogni della classe operaia, la sospensione della democrazia socialista in nome della difesa della Rivoluzione) e successivamente, quando le condizioni lo avrebbero permesso, l’estinzione dello stato, la socializzazione dei mezzi di produzione, cioè quello sviluppo di una società dei produttori fattore indispensabile per dare linfa vitale a quel movimento reale che abolisce lo stato di cose presenti prospettato nella seconda metà dell’Ottocento da Karl Marx.

DARDOT E LAVAL sintetizzano la loro presa di distanza e critica dalle tesi leniniste con la parole d’ordine di «tutto il potere ai soviet» che orienta la rivoluzione di febbraio e che Lenin rifiuta perché la priorità del partito comunista era la preparazione dell’insurrezione armata che culminerà con la presa del palazzo d’inverno. Dunque la rivoluzione d’ottobre come un colpo di stato che avrà come vittima sacrificale proprio i soviet. Per i due autori, la rivoluzione d’ottobre contemplava la costruzione di uno stato nazionale centralizzato e autoritario. Non c’è stato nessun tradimento staliniano, ma un processo che non poteva che costruire una società amministrata e gestita come un carcere.

Per questo, gli autori di riferimento del volume sono i comunisti consiliaristi come Anton Panneokek o la spartachista Rosa Luxemburg, così diversi tra loro, ma accomunati dalla critica alla concezione leninista del partito-avanguardia e dalla necessaria complementarietà tra rivoluzione sociale e rivoluzione politica. Ed è sempre per questo motivo che i modelli di rivoluzione preferiti sono la rivoluzione messicana del 1919 e la breve stagione della repubblica spagnola del 1936.

A CENTO ANNI DI DISTANZA occorre dunque tornare all’inizio, per metterlo a critica e superarlo proprio quando la rivoluzione è ritenuta una necessità per gestire un sistema sociale come pervasivo e illiberale come il capitalismo contemporaneo. L’analisi di Dardot e Laval punta cioè a recuperare lo spirito comunardo delle origini del movimento operaio per evitare il ripetersi di una tragedia, quella del socialismo reale.

Obiettivo ragionevole, ma comunque quella rivoluzione ha cambiato il corso della storia. Non è stata cioè solo tragedia, ma la possibilità aperta di una liberazione per uomini e donne.

FORSE IL BANDOLO della matassa da riprendere è proprio questo carattere liberatorio che ha prospettato – più che rispondere – la domanda dell’aderire o meno a quella rivoluzione.

Perché, come recitano i versi della poesia Ottobre di Vladimir Majakovskij «Aderire o non aderire? La questione non si pone per me. È la mia rivoluzione».

Posta & risposta pubblicati sul manifesto del 29 novembre 2017

Benedetto Vecchi ha recensito sul manifesto del 21 dicembre il libro di Dardot e Laval sulla rivoluzione russa (1917, Il potere ai soviet, DeriveApprodi 2017), in un articolo che mi sembra un po’ imbarazzato, in cui vuol osservare che i due autori evitano troppo facilmente la problematica (negriana) del rapporto potere costituente/potere costituito. Provando ad applicare questa diade concettuale alla rivoluzione del ’17, si può dire che il potere costituito nel Partito/Stato ha divorato il potere costituente dei soviet, in un cannibalismo di cui l’assalto a Kronstadt è l’esempio più visibile.

Il potere per de-finizione non tollera superiori e nemmeno pari ma solo contrapposti. In Lenin, la prevalenza del potere costituito e l’eliminazione del potere costituente è chiarissima. Si può immaginare una dialettica permanente fra potere costituente, cioè associazioni di base (soviet, consigli e qualsiasi altro appellativo), e potere costituito? Saremmo allora in una rivoluzione permanente….

È possibile vita sociale in questo modo? Vecchi scrive ancora che la rivoluzione russa: «non è stata solo tragedia, ma la possibilità aperta di una liberazione per uomini e donne». A me pare il contrario: è stata la chiusura di una via, quella della rivoluzione sul modello francese, cioè di un processo rapidissimo, violento, che assume presto un carattere militare, gerarchico e autoritario, come nella dimensione militare è indispensabile. La rivoluzione russa mi sembra dimostrare che o si sviluppa un processo di tipo autogestionale o si ritorna al punto di partenza.

Ciò significa che la gestione equa e libertaria della società non può essere rimandata a un dopo, con l’estinzione graduale del potere che non può avvenire perché il potere non ha vocazione suicida, ma deve avvenire sin dall’inizio del processo di trasformazione. Questo mi sembra l’insegnamento della rivoluzione russa.

Gian Andrea Franchi

La replica

Il saggio di Pierre Dardot e Christian Laval propone una rilettura critica delle tesi bolscevica sul partito come strumento, mezzo indispensabile per la presa del potere.

I due filosofi francesi, oltre a demonizzare la figura di Lenin, sostengono che la sua concezione del partito-avanguardia non poteva che entrare in rotta di collisione con i Soviet che vedevano sedere insieme bolscevichi, talvolta in minoranza, socialisti rivoluzionari, menscevichi e anarchici.

La prima vittima sacrificale del nuovo potere post-rivoluzionario non potevano dunque che essere proprio i Soviet, svuotati dalla loro funzione di contropotere rispetto le istituzioni zariste prima e post-rivoluzionarie dopo.

Quel che volevo segnalare nell’articolo è che la tesi di Dardot e Laval mostra un limite evidente laddove mette in secondo piano la guerra civile dopo la presa del Palazzo d’inverno e l’isolamento economico internazionale della Russia.

Ma se questa è materia per gli storici, il saggio evita comunque di porsi il problema dell’eredità politica, e dunque teorica dell’Ottobre 1917. Scrivere che una rivoluzione politica è destinata al fallimento se non c’è rivoluzione sociale salva infatti solo l’anima: non aiuta cioè a sciogliere il nodo del rapporto tra potere costituente – concetto che ha attraversato la teoria del Politico in tutto il Novecento – e potere costituito.

Mi sembra questo uno degli elementi dell’eredità politica della Rivoluzione d’Ottobre che andrebbero ripresi e messi al lavoro nel presente.

Benedetto Vecchi