Si susseguono quotidianamente studi allarmanti e proiezioni catastrofiche sulle condizione degli ecosistemi e sul futuro del genere umano. Cambiamenti climatici, estinzioni di massa, esaurimento delle risorse, inquinamento, picco del petrolio, rifiuti, collasso degli ecosistemi, deforestazione, microplastiche. Non ci resta molto tempo per fare qualcosa, anzi secondo voci sempre più insistenti saremmo ormai già oltre il tempo limite. Per Jem Bendell, Professor of Sustainability Leadership, fondatore dell’Institute for Leadership and Sustainability (IFLAS) e autore di un recente paper sulla Deep adaptation, il collasso a breve termine della società sarebbe inevitabile, la nostra stessa sopravvivenza come specie a rischio. Il meglio che potremmo fare è cercare di adattarci ai profondi mutamenti che sono alle porte riorganizzandoci completamente e velocemente.

Eppure nelle nostre vite di tutti i giorni continuiamo a pensare ad altro. A dove andare in vacanza questa estate, alle riunioni di condominio, a quale lavoro scegliere. Non riusciamo ad integrare gli scenari di futuro che ci vengono prospettati a livello globale con il nostro futuro personale, come se appartenessero a due ambiti separati e non comunicanti. Neghiamo l’esistenza stessa dei problemi, e anche quando li ammettiamo spesso non agiamo di conseguenza, non li caliamo nell’agenda della nostra vita. Come mai?

La risposta, o almeno una buona parte di essa, sembra risiedere nelle nostre scatole craniche. Un recente studio pubblicato su Nature condotto da un team di ricercatori tedeschi e britannici mostra come il nostro cervello sia piuttosto restio a trattenere informazioni che dipingono scenari catastrofici riguardanti il futuro, mentre non ha alcun problema con le informazioni positive. Questa asimmetria è dovuta ad una minore attivazione di un’area della corteccia frontale sensibile agli errori di stima negativi. «Era come se le persone stessero selettivamente ricordando le probabilità di eventi futuri, dimenticando le cattive probabilità ma non quelle buone» affermano i ricercatori. In altre parole siamo affetti da una sorta di ottimismo irrealistico, un errore (bias) cognitivo che ci impedisce di ricordare informazioni catastrofiche e indesiderate.

Gli unici soggetti sperimentali che facevano eccezione, capaci di trattenere le informazioni negative relative al futuro, erano quelli clinicamente depressi. L’ottimismo irrealistico sembrerebbe avere quindi una funzione adattiva: ci rende capaci di andare avanti anche di fronte ai pensieri spiacevoli, semplicemente evitandoli. E l’ottimismo irrealistico non è certo l’unico errore di stima che compiamo. Il nostro cervello, nel tentativo di semplificare la complessità e di fornirci un’immagine coerente e comprensibile del mondo, sbaglia piuttosto frequentemente. L’esistenza di alcuni di questi meccanismi è stata svelata già negli anni Settanta dalle ricerche di Tversky e Kahneman, premi Nobel nel 2002. Secondo i due psicologi la mente umana, per risparmiare energia, fa un ampio ricorso al pensiero automatico, attraverso una serie di semplificazioni e «scorciatoie» chiamate euristiche.

Le euristiche sono fondamentali per la nostra sopravvivenza: ci permettono di sostituire un processo complesso con uno più semplice, ci aiutano a prendere decisioni veloci attraverso il minimo sforzo cognitivo. Come affermava lo stesso Kahneman, «considerato quanto poco sappiamo, la certezza che abbiamo delle nostre convinzioni è assurda; ed è anche essenziale».Tuttavia in alcuni casi non funzionano correttamente e ci restituiscono una visione distorta della realtà, alterano la nostra percezione e ci inducono a fare scelte sbagliate, a volte possono diventare freni potentissimi anche ai cambiamenti positivi e vantaggiosi. In questo caso parliamo di bias (si pronuncia «bàiës») cognitivi. I bias sono errori ricorrenti e comuni a tutti gli esseri umani. A partire dagli studi pionieristici di Tversky e Kahneman sono stati scoperti centinaia di bias e fatte svariate classificazioni; tali studi tuttavia sono finora rimasti chiusi all’interno delle aule di psicologia: in pochi li hanno collegati alla nostra atavica difficoltà di risolvere i problemi ambientali che abbiamo creato. Eppure i collegamenti sono evidenti: se analizziamo le strategie che abbiamo fin qui messo in atto come individui e come società per far fronte alla catastrofe ecologica, ci accorgeremo che sono piene di questi errori. È anche grazie ai bias se siamo così bravi ad evitare i problemi o a trovare soluzioni che in realtà non lo sono.

Prendiamo il problema dei cambiamenti climatici: quante volte alla prima ondata di gelo imprevista abbiamo sentito qualcuno affermare che il riscaldamento globale non esiste, appellandosi al fatto che, per l’appunto, «fuori fa freddo»? Questa fallacia logica prende il nome di bias dello spaventapasseri e consiste nel prendere una tesi che non ci piace, modificarla inconsapevolmente quel tanto che basta perché risulti simile all’originale ma sia molto facile da confutare (creando così uno spaventapasseri, un fantoccio simile all’uomo ma decisamente diverso), infine demolirla. Nell’esempio dei cambiamenti climatici il bias dello spaventapasseri agisce così: semplifichiamo l’affermazione dei climatologi «le temperature medie del pianeta si stanno alzando» con la più immediata – ma errata – «fa sempre più caldo ovunque». Mentre la prima è impossibile da confutare, la seconda è molto semplice: basta un’ondata di freddo ed ecco che possiamo affermare che i climatologi sono dei bugiardi e che il cambiamento climatico è una bufala.

Potremmo quindi pensare che la soluzione a questo tipo di errore risieda in una informazione sui cambiamenti climatici più corretta e capillare. Ma non è così semplice. Se siamo convinti che il riscaldamento globale non esista, sarà molto difficile accettare informazioni che ci facciano cambiare idea. Questo per effetto di un altro errore cognitivo, il bias di conferma, un meccanismo con cui selezioniamo accuratamente le informazioni che rinforzano le nostre convinzioni e scartiamo quelle che le mettono in discussione. E c’è di più: se anche ci finissimo a sbattere contro riusciremmo a mantenere salde e persino rinforzare le nostre idee, mettendo in atto un’altra distorsione cognitiva chiamata backfire effect: di fronte a dati che smentiscono le nostre convinzioni, queste ultime, invece di esserne scalfite, si rafforzano ancora di più.

Sono solo alcuni esempi di questi meccanismi. Insomma, pare che il nostro cervello non funzioni granché bene quando si tratta di osservare la realtà in maniera oggettiva ed agire di conseguenza. Ma come mai? Una spiegazione potrebbe risiedere nel fatto che utilizziamo questi meccanismi per rispondere e «giustificare» altri tipi di pulsioni. Il cervello è un organo molto complesso. In particolare la corteccia ci permette di fare cose del tutto anomale per il mondo animale, come immaginare il futuro, inventarsi Stati, monete e religioni. Al di sotto di questa ipercomplessità, resistono tuttavia alcune spinte evolutive molto forti, che agiscono in maniera inconsapevole, sottocorticale. La ricerca di sale, zuccheri e grassi animali, lo stare in gruppo, il sesso. Queste «leve» genetiche si sono sviluppate in un contesto in cui fornivano un oggettivo vantaggio evolutivo, ma resistono ancora oggi, sebbene in molti casi questo vantaggio sia scomparso. Paolo Rognini, già docente di Ecologia urbana e sociale all’Università di Pisa, è autore di un recente studio proprio su questi aspetti, che ha definito Vestigial Drifting Drives, ovvero spinte arcaiche alla deriva. «Abbiamo visto che nell’uomo, come in altri animali, resistono alcune spinte vestigiali che un tempo ci permettevano un buon adattamento mentre oggi sono controproducenti». Lo studio porta come esempio la rapacità e la spinta all’espansione. «Continuiamo a prendere più del necessario dagli ecosistemi e a moltiplicarci, perché quando si è evoluto il nostro cervello, nel paleolitico, queste due caratteristiche ci davano un vantaggio evolutivo». Oggi non è più così, anzi contribuiscono a condurci all’estinzione. Eppure le abbiamo ancora.

In definitiva, pare che questa macchina potentissima che abbiamo in testa serva soprattutto a complicarci le cose. Siamo ancora molto simili alle scimmie che si sono evolute molti millenni fa, ma rispetto ai nostri antenati siamo diventati decisamente più bravi ad autoingannarci, abbiamo costruito meccanismi molto sofisticati per giustificare le nostre pulsioni primordiali. Non vogliamo soffrire, non ci piace cambiare, non ci interessa granché conoscere la verità. Così stanno le cose. Eppure, se non vogliamo estinguerci dobbiamo imparare a fare tutte queste cose, anche andando contro alle nostre spinte genetiche. E dobbiamo fare in fretta. «Per fortuna – continua Rognini – a differenza degli altri animali l’homo sapiens ha questa caratteristica che si chiama apprendimento tecnoculturale. Possiamo correggere il tiro, modificare le nostre spinte biologiche attraverso la cultura, e questo potrebbe permetterci di cambiare velocemente, senza aspettare l’evoluzione genetica che ha ritmi lentissimi». Nel problema, il nostro cervello, la soluzione. Forse.