Alice Howland è una donna sulla cinquantina, docente di linguistica alla Columbia University, felicemente sposata, con tre figli, naturalmente la più piccola è quella spiantata, dal futuro incerto e con velleità artistiche. Il perimetro dell’esistenza di Alice è ben delineato, lavoro e famiglia le danno grandi soddisfazioni e niente sembra mettere in discussione un disegno così preciso. Fino a quando quel perimetro inizia a mostrare delle smagliature, non all’esterno, anche se così le appare, ma dentro di lei. Spazio e tempo si sfaldano, volti e oggetti si celano improvvisamente dietro altri nomi. Come detto, però, non è il mondo a essersi ribellato. Purtroppo, è il suo corpo, il suo cervello, ad aver scompaginato il quadro, a dettare altre coordinate. I ricordi diventano sempre più confusi, i confini tra il vissuto e il percepito come reale cadono uno dopo l’altro.

Una visita da uno specialista le notifica che è affetta dal morbo di Alzheimer. Una malattia che la colpisce in modo drammaticamente e raramente precoce e che inoltre sarà ereditata da uno dei suoi figli. Da quel momento la prospettiva cambia radicalmente. Per uno strano gioco d’associazioni, viene alla mente Il paradiso può attendere, quando Joe Pendleton, il protagonista interpretato da Warren Beatty, deve lasciare il corpo che gli è stato dato provvisoriamente con tutte le storie vissute, per prenderne uno definitivo che però avrà l’effetto di cancellare tutto quello che aveva fatto in precedenza.

A differenza di Joe, che nel suo futuro potrà comunque costruire nuovi ricordi insieme agli altri (perché in un certo senso tutti hanno perso la memoria di ciò che è stato), Alice ha davanti a sé un orologio che gira in senso opposto. Lei prova ad aggrapparsi al suo passato e dissemina la casa d’indizi che le rammentino il presente, il qui e ora, la sua stessa malattia, mentre gli altri vanno avanti e la osservano nel suo progressivo spegnersi, separando la donna di ieri dalla sconosciuta di oggi. Come se Alice fosse già morta nel momento in cui la sua vita ha iniziato a non coincidere più con il suo ricordo.

Still Alice di Richard Glatzer e Wash Westmoreland, presentato al Festival di Roma nella sezione Gala, ha una sola e indiscussa protagonista, Julianne Moore. Gli altri attori, compreso Alec Baldwin che interpreta il marito, sono il necessario corredo affinché in modo didascalico si possano dimostrare gli effetti della malattia. Se da un lato, il film porta lo spettatore dentro le angosce e lo spaesamento di Alice, con i suoi tentativi di riorganizzare e riaggiornare la propria memoria; dall’altro, i due registi sentono il bisogno di mettere dei punti di riferimento chiari, degli appigli ai quali quello stesso spettatore possa aggrapparsi, il marito premuroso ma anche costretto a pensare al lavoro, i figli che devono regolare alcuni conti in sospeso e che cercano di elaborare il lutto che verrà. Pochi rischi e tante buone emozioni.

Sarebbe superfluo interrogarsi nuovamente sulla facilità con la quale certe prove attoriali vengano così ben retribuite in termini di premi. Julianne Moore ha vinto un Golden Globe così come il suo collega Eddie Redmayne con l’interpretazione di Stephen Hawking ne La teoria del tutto. È già accaduto e continuerà a succedere. Così come sembra inevitabile che certi film che hanno una distribuzione sicura, il conforto della Academy, una stampa favorevole, debbano ricevere anche il sostegno di manifestazioni in teoria destinate alla ricerca e alla scoperta di nuovi linguaggi. Ma certi discorsi oramai sembrano destinati a cadere nell’oblio come i ricordi di Alice.