Non è per vezzo che ci si rivolge ai fatti di Genova con il termine di «tragedia». La repressione premeditata, lo scempio dei corpi – di tutti i corpi, senza rispetto per alcuna sacralità – la tirannide che talvolta cova nella legge dello Stato, l’ingiustizia, persino la tortura e infine l’assassinio di un ragazzo, sono sedimentati nella memoria assumendo questa specifica forma. Tuttavia Genova non è solo Antigone.

LA RETORICA DELL’EROE forse non è ammissibile in questa storia, perché Genova è un’epidermide composta da migliaia di scaglie diverse, voci spaiate, vite vicine e lontane. Insistono, però, tutte nello stesso tempo e nello stesso spazio, e per questo rappresentano un coro. Genova è, appunto, la tragedia del coro. Chi compariva nelle sue fila? Il mondo intero. O meglio: i testimoni di un mondo potenziale. Quello che poteva essere e in buona parte non è stato per la persecuzione volontaria, la strategia ordita da chi ha voluto impedire che quel mondo diventasse adulto. Genova è dunque la tragedia dei bambini. Nelle rivoluzioni, così parrebbe, c’è sempre una scintilla d’innocenza. Non vale lo stesso per le repressioni.

Quante volte abbiamo ascoltato l’interrogativo «Cosa resta di quella stagione?», o peggio siamo stati testimoni della malevola constatazione (auspicio?) che recita: «Poco o niente è rimasto». Entrambe sono espressioni di una miopia funzionale. Al contrario, quei giorni sono divenuti il blocco umano di un evento che ha mutato per sempre le nostre vite.

NEL CORREDO delle pubblicazioni che hanno accompagnato questi primi vent’anni, una menzione particolare compete a La rivoluzione non è che un sentimento. Venti interviste a vent’anni dal G8 di Genova, a cura di Archivi della Resistenza e uscito come terzo volume della collana Verba Manent. Racconti di vita e storia orale per Ets Edizioni (pp. 360, euro 20). Le ragioni sono diverse. La prima riguarda proprio quell’attenzione al coro, come unità narrativa di cui scrivevamo: portavoce e militanti di base, giornalisti e scrittori, mediattivisti e video-operatori, legali e infermieri, studenti e giovani dei centri sociali, processati e religiosi, vittime dei pestaggi e delle torture.

Venti testimonianze di quell’universo esploso che ha attraversato le strade di Genova, le vicende minime, le motivazioni personali legate a una fase irripetibile della nostra storia recente – come irripetibile è ogni evento dotato di una sua particolare fisionomia – ma che rappresenta un punto di partenza per guardare al futuro. E qui emerge una seconda ragione di merito del volume di Archivi della Resistenza: la tragedia – se è tale – ha sempre un valore pedagogico, anche e soprattutto quando pone al centro un tabù, come la cessazione violenta della vita di un cittadino per mano dello Stato.

È UN LIBRO-PROGETTO che bene si rivolge – nel linguaggio, nella freschezza delle interviste che sanno riprodurre magistralmente il tempo delle singole voci – alle future generazioni, che indica loro una possibile strada, una possibile memoria. Ascoltare, imparare, indignarsi, ribellarsi. Infine una terza ragione, che insiste già nel titolo della raccolta, quel verso ripreso da L’alba meridionale di Pier Paolo Pasolini. L’invito a rinnovare l’origine emotiva di ogni atto di rivolta, la sua contiguità al vissuto microscopico, il desiderio inappagato di restare desti, di non dimenticare. La parola – strumento imperfetto – conserva le storie, e ha il potere di farle ricominciare. Perché tutto passa, le ingiustizie e le loro mille declinazioni, la violenza di Stato, le mistificazioni, ma il ricordo di Genova è per sempre.