Nella Brexiteide (poema prosaico, narra le gesta di una nazione che lascia un continente senza avere la minima idea di come si faccia pur di dirigersi lesta verso una destinazione ancora ignota) i momenti cruciali sono ormai routine.

Ieri c’è stato il terzo voto in tre giorni a due settimane dalla ghigliottina dell’articolo 50 – l’articolo del trattato di Lisbona che definisce nebulosamente i termini di qualcosa di mai accaduto prima, vale a dire l’abbandono dell’Ue da parte di un Paese membro.

WESTMINSTER doveva decidere sulla mozione del governo che chiedeva all’Unione europea il permesso di estendere per un’unica volta la scadenza di detto abbandono, fissato al 29 marzo, fino al 30 giugno o oltre. E ha, com’era previsto, largamente deciso di estenderlo, con una maggioranza di 212.

Poco prima aveva anche votato, e largamente, contro un emendamento proposto dalla transfuga tory Sarah Wollaston, ora confluita nel Gruppo indipendente assieme ai fuorusciti Labour, per convocare il sospirato secondo referendum – cui Corbyn aveva prescritto ai suoi di astenersi – e contro un’altra proposta interpartitica portata avanti dai laburisti centristi Hilary Benn e Yvette Cooper: un emendamento che avrebbe permesso al parlamento di sottrarre al governo il controllo dell’ingarbugliato processo di uscita, sostituendovisi. Pur avendo affossato l’emendamento Wollaston – non ne considerava appropriato il momento – Corbyn ha ribadito, subito dopo il voto, la sua apertura a un secondo referendum.

NIENTE BREXIT fra due settimane dunque, ed evitata l’uscita dura/no deal, col voto di mercoledì. Entrambe le mozioni, quella sul no deal e quella sul rinvio di ieri, erano state promesse all’aula da May qualora il suo accordo non fosse passato martedì scorso. Era stato di nuovo respinto con la violenza di 140 voti contro (e sì che è andata molto meglio della prima volta).

Ora è su sulla durata dell’estensione di questo rinvio che si apre l’ennesima incognita in questa chiara e scorrevole trafila: sì, perché martedì prossimo May ci riproverà ancora, rimettendo ai voti per la terza volta il suo accordo della discordia. Nel caso in cui la camera lo respingesse ancora, il governo chiederà a Bruxelles un’estensione ulteriore, fino a oltre un anno.

Ma questo significherebbe che il Paese dovrebbe partecipare alle elezioni europee fissate il 23 maggio, trovandosi nella situazione surreale di dover mandare a Bruxelles dei propri deputati europei mentre esce dall’Europa.

LA PAURA di una simile situazione, la cui indeterminatezza potrebbe riaprire la porta a un secondo referendum come anche alla revoca unilaterale di Brexit, è l’ultimo appiglio cui May resta aggrappata nella speranza che convinca gli estremisti isolazionisti dell’Erg e la combriccola del Dup – che finora hanno aperto per ben due volte il fuoco amico sul suo accordo – finalmente a votare a favore. E riprovandoci magari anche una quarta volta, fin quando poi qualcuno non le faccia capire che è meglio farsi da parte. «Third time lucky», è un detto inglese: significa più o meno insisti, la terza volta sarai fortunato e riuscirai. Riassume efficacemente l’approccio della premier, che per attaccare un chiodo spinge con forza il muro contro il chiodo.

C’È POI IL FATTO CHE BRUXELLES non è per niente scontato conceda questa estensione. La decisione dell’Ue è di carattere politico, non banalmente amministrativo, e richiede l’unanimità di tutti i 27.

Gli umori sono cupi e il livello di guardia della pazienza assai vicino anche per tradizionali alleati della Gran Bretagna, come l’Olanda di Mark Rutte. Un portavoce della Commissione europea confermava inoltre che dipende dai leader dei rispettivi Stati «la considerazione di una simile richiesta, il dare priorità alla necessità di assicurare il funzionamento delle istituzioni dell’Unione Europea e di tener conto delle ragioni e della durata di una simile estensione». Jean-Claude Juncker è in contatto con i vari leader e Donald Tusk comincerà la settimana prossima un European tour per sondare.

Si è chiusa una settimana infernale per May, il suo governo e per Westminster tutta. Non è però detto che gli sviluppi non finiscano per vendicare la testardaggine di May, tanto la situazione è fuori dai normali criteri della logica e della razionalità politica. Molto potrebbe dipendere dal Dup per esempio.

I GRUPPI ALLA DESTRA della premier tendono a muoversi di concerto e se il Dup dovesse accontentarsi di qualche altra piccola modifica al backstop che May in cuor suo ancora spera Bruxelles possa, nonostante i ripetuti dinieghi, concedere in extremis, anche l’Erg di Rees-Mogg e soci li seguirebbe a rimorchio.
L’ex regina dei mari non ha mai navigato a vista come adesso. Per il momento, pare una nazione senza destinazione.