La sua prima parte, il cui perno centrale è l’articolo 18, si compone di disposizioni che sanciscono la polivalenza di fondamentale diritti civili e politici costituzionalmente riconosciuti a tutti i cittadini che devono poterli esercitare non solo nei confronti dello Stato, ma anche nei rapporti interprivati e dunque anche nell’ambito dell’impresa. La quale cessa così d’essere un mondo a sé, separato dall’ordinamento giuridico generale, auto-concluso.

Per questo, i primi commentatori hanno creduto di ravvisare nell’art. 9 che riconosce ai lavoratori il diritto – esercitabile mediante proprie rappresentanze – di «promuovere la ricerca, l’elaborazione e l’attuazione di tutte le misure idonee a tutelare la salute» psico-fisica, il pathos del rimorso che alla fine afferra uno Stato che non fa abbastanza per evitare che il diritto al lavoro non comporti il sacrificio della vita.

Il secondo nucleo normativo, che ha nell’art. 19 il suo incipit, venne definito promozionale od anche di sostegno del sindacato, perché ne favorisce l’insediamento nell’impresa fino a farne un contropotere collettivo organizzato. Le due anime dello Statuto si integrano saldamente: la loro unione stabilisce un nesso di continuità tra interesse collettivo-sindacale e interessi individuali dei lavoratori. La protezione del primo è funzionale alla protezione dei secondi.

Infatti, l’art. 28 è utilizzabile simultaneamente a tutela del sindacato e dei singoli per rimuovere gli effetti prodotti da comportamenti pluri-offensivi dell’imprenditore: lesivi cioè di situazioni giuridiche individuali il cui ripristino corrisponde anche all’interesse del sindacato.

Nel complesso, lo Statuto si proponeva di cambiare radicalmente lo stile del potere aziendale sostituendo all’autorità-autoritaria l’autorità che può derivare dalla rilegittimazione dell’iniziativa economica in forma d’impresa all’insieme di tutti valori di cui è portatore il fattore lavoro – anche quelli non negoziabili né monetizzabili. Delle (tre) chiavi di volta dello Statuto quella consistente nella repressione per via giudiziaria dei comportamenti anti-sindacali dell’imprenditore, è l’unica tuttora esistente.

L’art. 18 non c’è più e l’art. 19 è stato stravolto dall’improvvido referendum del giugno 1995 il cui esito lo ha degenerato in un meccanismo di estromissione dall’area legalmente protetta di un sindacato come la Fiom che non aveva sottoscritto l’accordo applicato nella Fiat di Sergio Marchionne. Se nel 2013 la Corte costituzionale non avesse rattoppato lo strappo subito dalla versione originaria della norma statutaria, i successivi anniversari della nascita dello Statuto sarebbero stati l’occasione di celebrazioni commemorative.

Nell’arco del mezzo secolo che è trascorso dalla sua entrata in vigore sono successe troppe cose per poterle qui esaminare. Due evenienze di enorme importanza, però, non possono non essere ricordate. La prima è che, dopo avere udito il tuono «a sinistra» che attraversò i cieli dell’autunno caldo di cui lo Statuto è figlio, i lavoratori hanno udito gli spari delle P 38; e difatti il processo dei 61 licenziamenti di Mirafiori nel 1980 rimane l’epifania del processo che si è voluto promuovere contro il sindacato.

La seconda evenienza che aiuta a spiegare il crepuscolo dello Statuto ha molto a che fare con la rovinosa fine della campagna di Russia di Napoleone. Ormai arrivati alle porte di Mosca, i generali dell’esercito francese che stavano pregustando il sapore della vittoria videro la città bruciare. Non diversamente, i luogotenenti delle confederazioni sindacali sponsorizzate dallo Statuto videro la grande industria svuotarsi della sua popolazione operaia.