Eccolo il new deal, tutto in minuscole. Boris Johnson aveva il sorriso del mariuolo perdonato mentre annunciava, al fianco di Jean-Claude Juncker, ieri pomeriggio a Bruxelles, il raggiungimento del sospirato accordo Brexit sul filo di lana dell’ennesima proroga. Doveva per forza succedere nell’arco di tempo fissato per il summit europeo di Bruxelles che si conclude oggi, e l’alacre lavoro degli «sherpa» di ambo le parti, protrattosi ben oltre la mezzanotte, ha finalmente dato i suoi frutti.

Nel gergo Ue, simili negoziazioni notturne e ansiogene sono dette «il tunnel»: e ieri Johnson e Juncker davanti ai microfoni e alle telecamere trepidanti parevano due che avevano visto la luce in fondo al tunnel. Juncker, forse. Ma per Johnson questa luce è un altro treno. Quello della ratifica nel suo parlamento, alla cui impossibilità, di cui è stata vittima per tre volte la sua predecessora Theresa May, lo stesso Johnson deve il premierato.

Ma andiamo con ordine, pur riassumendo i termini del documento, lungo sessantacinque pagine. Il vituperato backstop, che minava l’integrità del Regno Unito agli occhi della destra unionista è stato eliminato e sostituito da un nuovo protocollo secondo il quale l’Irlanda del Nord resterà allineata all’Ue dalla fine del periodo di transizione per almeno quattro anni. L’assemblea parlamentare nordirlandese di Stormont (attualmente non operativa) potrà deciderne eventuali cambiamenti. Il ritorno di confini fisici e dogane, che automaticamente diventerebbero bersagli per azioni terroristiche della New Ira, sono stati evitati. Insomma, l’Irlanda del Nord resta in territorio doganale britannico ma anche nell’unione doganale dell’Ue.

Niente confini, ma ci saranno tariffe applicate a merci che, provenendo dalla Gran Bretagna transiterebbero in l’Irlanda del Nord per poi passare «in Europa», cioè in Irlanda. Non c’è più bisogno di proroghe a questo punto, almeno secondo Juncker.

Ora Johnson, che governa con una minoranza di quarantacinque, si ritrova al fatale appuntamento con il suo stesso parlamento che già aveva fatto naufragare May. E ne eredita l’ostacolo del Dup, la sporca quasi-dozzina di deputati nordirlandesi di cui, come del resto la stessa May, ha disperato bisogno.

Considerano questo accordo un insulto contro il Good Friday Agreement, tanto è lesivo dell’onore unionista: ed è eufemisticamente improbabile che lo votino sabato, quando Westminster si assiederà straordinariamente (sarebbe la quinta volta dal 1939) proprio per deciderne le sorti. Trattandosi dunque di una questione esistenziale per il Dup, Johnson dovrà elemosinare altrove.

È il momento per lui di affrontare le conseguenze negative della pulizia ideologica con cui ha fatto fuori una ventina di colleghi di partito filo-remain nelle scorse settimane, che sabato gli tornerebbero utili assai. Questo lo spinge più che mai nelle braccia della trentina di membri dell’European Research Group, l’ormai esilarante drappello di ultra-euroscettici (privi di autoironia al punto da essersi definiti «gli spartani») che sembra uscito dalle matite di un disegnatore satirico.

I voti dell’opposizione, poi, se li sogna. Jeremy Corbyn ha categoricamente garantito che il Labour voterà contro. Il partito intende, una volta installato il suo leader a Downing Street – vuoi come capo di un governo di «unità nazionale», vuoi perché vincitore delle prossime elezioni (ovviamente al momento diradatesi nel dibattito e nei commenti) -, rinegoziare in tre mesi un accordo con l’Ue da sottoporre poi al Paese via referendum nei sei mesi successivi: questa è la posizione raggiunta all’ultimo congresso a Brighton, lo scorso settembre. Altrettanto faranno i Libdem, la cui posizione è da mesi quella di un secondo referendum, per tacere dei nazionalisti scozzesi, che per mesi hanno strattonato Corbyn perché votasse la sfiducia al governo. Johnson potrebbe però raccattare qualche voto da deputati Labour moderati e riottosi alla disciplina dei capigruppo imposta dalla direzione.

Per ora di certo sembra esserci la mancanza di numeri per far passare l’idea del secondo referendum, avvalorata dal barometro dei sondaggi: il paese resta diviso sull’argomento come tre anni fa e le percentuali sono rimaste grossomodo le stesse.