Fanno sciopero, alla rovescia. L’iniziativa promossa dal Coordinamento delle ricercatrici e dei ricercatori non strutturati universitari (Crnsu) si ispira allo sciopero alla rovescia organizzato nel 1956 da Danilo Dolci. Centinaia di disoccupati di Partinico resero percorribile una strada comunale di Trazzera vecchia. I disoccupati potevano scioperare solo lavorando. Quello fu il segno di una nuova forma di protesta che portò all’arresto di Dolci, difeso in tribunale da Piero Calamandrei. In una situazione non molto diversa si trovano i precari della ricerca che in Italia non sono considerati lavoratori, al punto che il ministero dell’università e quello del lavoro hanno negato il sussidio di disoccupazione Dis-Coll riservato invece ai lavoratori che, come loro, versano i contributi previdenziali alla gestione separata dell’Inps.

Il nuovo «sciopero alla rovescia», lanciato a fine gennaio da un’assemblea nazionale a Firenze, consiste nell’indossare una maglietta rossa con l’hashtag #ricercaprecaria. Le silhouette di due strikers – una donna e un uomo – che incrociano le braccia stanno spuntando in questi giorni nelle lezioni, nei convegni, nei laboratori e anche a casa dove i ricercatori scattano i selfie pubblicati sulla pagina facebook del Coordinamento. In pochi giorni la protesta è diventata virale, dando un volto agli «invisibili», presunti non-lavoratori, che mantengono in vita un’università ridotta ai minimi termini dalle riforme dell’ultimo quarto di secolo. I ricercatori precari hanno trovato alleati. Accanto alle loro magliette rosse sono spuntate quelle arancioni, indossate dagli studenti e dai docenti che condividono la loro battaglia.

Ricercatori strutturati Rete 29 aprile in maglietta arancione alleati di #ricercaprecaria
Ricercatori strutturati Rete 29 aprile in maglietta arancione alleati di #ricercaprecaria

«Il primo obiettivo della mobilitazione lo abbiamo raggiunto: stiamo facendo parlare di noi e noi ci riconosciamo come lavoratori precari. Vogliamo dimostrare la qualità e quantità del lavoro che facciamo nei dipartimenti ma che resta costantemente invisibile» sostiene Caterina, sociologa precaria che lavora in un centro universitario di studi di genere. Per integrare il suo reddito discontinuo lavora come baby sitter e fa ricerca e formazione per il privato sociale. Il suo dottorato risale al 2012. Da allora condivide la vita e le incertezze dei 60 mila lavoratori precari della ricerca italiana.

La mobilitazione è diventata anche l’occasione per condurre un’inchiesta partecipata online. Il coordinamento ha diffuso un questionario al quale, ad oggi, hanno risposto 1500 precari. Dottorandi, borsisti, assegnisti di ricerca: le mille facce del precariato universitario svolgono in media 14 mila ore di lezione condotte dai non titolari dei corsi; partecipano a 4 mila commissioni di esame; nel corso dell’ultimo anno hanno seguito 3 mila tesi. «Tra di noi – racconta Caterina – ci sono anche coloro che scrivono i progetti europei, gli unici che portano fondi ai dipartimenti. Questi progetti non li possiamo firmare perché non siamo strutturati negli atenei che li ricevono». Nella stessa situazione si trova sia chi riceve un reddito che i ricercatori che hanno terminato una borsa e ne aspettano un’altra.

Per questa ragione, a dicembre, il coordinamento insieme alla Flc-Cgil, ai dottorandi dell’Adi e gli studenti di Link hanno promosso la battaglia sulla Dis-Coll: il diritto agli ammortizzatori sociali è necessario per contrastare il lavoro gratuito nell’università. Pur respinta, la richiesta continuerà a vivere nel «secondo tempo» della mobilitazione. Il coordinamento presenterà una carta dei principi della ricerca pubblica in un’assemblea a Milano prevista nei primi giorni di marzo. Insieme ai diritti sociali dei precari, al reddito universale e al diritto allo studio, sarà affermata la necessità di rifinanziare l’università, una riforma del reclutamento diversa da quella annunciata dal governo con i suoi 500 «ricercatori eccellenti» o «ad alta velocità».

Nella carta sarà affrontata la dilagante protesta dei docenti contro la «valutazione della qualità della ricerca» (Vqr). «Noi non ci sottraiamo alla valutazione – sostiene Caterina – Riteniamo che i suoi criteri vadano definiti in base all’utilità scientifica e sociale della ricerca, e non in base all’eccellenza e alla meritocrazia che sono dispositivi escludenti e individualisti. La conoscenza è cooperazione, il sapere non è il prodotto di singoli eroi solitari che spiccano su una massa inerme». I precari vogliono agire in coalizione «con chi critica la Vqr non dal punto di vista corporativo, ma da una visione del ruolo dell’università pubblica». Le prove generali di questa alleanza ci saranno l’11 febbraio a Napoli dove, alla Federico II, è prevista un’assemblea con tutte le componenti della protesta universitaria. Dopo lo sciopero alla rovescia i precari auspicano di farne uno «dritto»: insieme vogliono dimostrare cosa «può diventare l’università senza di noi per un giorno».