«Io sono passato da uomo d’affari di GRANDE successo a star della tv…a presidente degli Usa (al primo tentativo). Questo prova che non sono semplicemente intelligente, ma un genio… anzi un genio molto stabile!» Questo è quanto Trump ha twittato ieri mattina.

Così Trump ha risposto alle insinuazioni che circolavano da giorni sul suo stato di salute mentale. Certo, i soggetti che sentono il bisogno di convincere gli altri che sono dei geni, e per di più in perfetta salute, hanno di solito residenza in apposite strutture dove esistono stanza imbottite, infermieri robusti e, all’occorrenza, cinghie di contenzione. Se, invece, il soggetto in questione abita alla Casa bianca e ha un arsenale nucleare a sua disposizione, mezza America lo acclama e lo sostiene, mentre l’altra metà lo deride come un buffone, per esorcizzare la giustificata paura di ciò che potrebbe fare (nelle ultime 24 ore, è esploso su Twitter l’hashtag #stablegenius).

Le paure si sono amplificate quando, pochi giorni fa, Trump ha minacciato la guerra nucleare contro la Corea del Nord, ammonendo Kim Jong-un che «il mio bottone nucleare è assai più grosso e potente del suo, e funziona!».

Il bizzarro linguaggio usato dal presidente ha confermato gli oppositori di Trump nelle loro peggiori paure, quelle di un leader mentalmente instabile, capace di iniziare una guerra atomica contro un paese ormai in grado di colpire a sua volta gli Usa con armi di distruzione di massa. Tra l’altro non esiste, fortunatamente, alcun «bottone» nucleare: l’uso di armi atomiche viene sì deciso dal presidente ma con una serie di procedure estremamente rigide che prevedono la consultazione dei principali collaboratori e l’intervento dei militari che possiedono i codici necessari per il lancio dei missili. Un sistema di sicurezza che potrebbe (e dovrebbe) frustrare una decisione sciagurata presa da un presidente incapace di valutarne le conseguenze.

Le critiche dei giornali, che hanno pubblicato una lettera di psichiatri sulle condizioni mentali di Trump, si sono sommate al libro del giornalista Michael Wolff, che descrive un presidente infantile, paranoico, timoroso di essere avvelenato, drogato di televisione. Da qui al discutere seriamente la possibilità di rimuoverlo dalla carica utilizzando il XXV emendamento della costituzione il passo era breve e i media non hanno esitato a compierlo, provocando la furiosa reazione di The Donald.

Il XXV emendamento non fu concepito per il caso di un presidente megalomane e «instabile», bensì per leader ridotti in fin di vita da malattie irreversibili o attentati. Tutto ebbe inizio con Edith Wilson, la seconda moglie del presidente Woodrow Wilson, il quale aveva problemi di ipertensione congeniti. Nell’ottobre 1919 Wilson soffrì di un ictus che lo lasciò paralizzato sul lato sinistro del corpo e semicieco ma per mesi nessuno fu messo al corrente della gravità delle sue condizioni, tranne la moglie, il suo medico Cary Grayson e il genero William McAdoo. Coincidenza interessante: McAdoo era il genero di Wilson, oltre che ministro del Tesoro e ascoltato consigliere, come oggi lo è Jared Kushner.

Dopo parecchie settimane Wilson, benché indebolito, recuperò le forze per mostrarsi in pubblico ma in realtà furono la moglie e il capo di gabinetto Joe Tumulty a svolgere le funzioni di presidente per ben 15 mesi, fino alla fine del suo mandato. Col tempo i particolari della malattia vennero alla luce e il caso fu determinante quando il Congresso decise che era necessario rafforzare e precisare le regole di ciò che era necessario fare in caso di malattia del presidente: prima dell’approvazione dell’emendamento la costituzione stabiliva solo che il vicepresidente subentrava in caso di morte. Se, per esempio, Kennedy fosse sopravvissuto all’attentato di Dallas nel 1963, ma rimanendo in stato vegetativo a causa delle ferite, tecnicamente non sarebbe stato possibile affidare i poteri presidenziali a Lyndon Johnson.

C’era la guerra fredda, il mondo era stato a un passo dalla guerra nucleare durante la crisi di Cuba, nel 1962, e l’emendamento fu approvato dalle due camere e ratificato dai tre quarti degli stati nel 1967. Nel caso di Trump, il XXV emendamento è uno strumento di utilizzo ancora più improbabile dell’impeachment perché richiede che il vicepresidente e una maggioranza del gabinetto certifichino per iscritto che il presidente non è più in grado di svolgere le sue funzioni. Ora, poiché i collaboratori del presidente sono per definizione suoi fedelissimi non si vede in che modo una congiura di palazzo per destituirlo potrebbe prendere forma. In una città come Washington, tra l’altro, il solo pensiero di una cospirazione in questo senso finirebbe stampato su New York Times e Washington Post prima ancora che gli interessati avessero finito di formularlo.

I dibattiti sulla possibilità di rimuovere Trump prima della fine del suo mandato, a cui mancano ancora tre anni e due settimane, sono quindi una testimonianza non delle bizzarrie del presidente, ormai tutte arcinote, quanto della debolezza dell’opposizione, in particolare del partito democratico che non riesce ad articolare un’azione efficace per contrastare lo smantellamento dell’eredità di Obama da parte dei repubblicani.