È il giornalismo che cambia la guerra, come suggerisce il titolo del nuovo libro di Michele Mezza (Net-war, Ucraina: come il giornalismo sta cambiando la guerra, Donzelli, pp. 224, euro 19) o la guerra che cambia il giornalismo? Non c’è dubbio che con il conflitto causato dall’aggressione russa all’Ucraina assistiamo alla prima net-war e non solo per l’uso di strumenti digitali che hanno cambiato il mestiere del giornalista negli ultimi decenni, ma per la trasformazione dell’informazione in logistica militare. «L’informazione è profondamente cambiata proprio dal fatto di essere usata come modo di fare la guerra, e non più di raccontarla» scrive Mezza ed è all’interno di questo processo di «ibridazione» fra realtà e manipolazione comunicativa che l’autore rintraccia la distorsione del modo di fare informazione.

E I GIORNALISTI ARRUOLATI per gestire i nuovi sistemi di questa infoguerra diventano di fatto tutti embedded. Non solo i giornalisti si sono messi l’elmetto ma è sempre più labile il confine tra intelligence e giornalismo: in gioco non è solo l’informazione e la democrazia ma la sicurezza dello stato. Il paradosso è tuttavia rappresentato dal fatto che con la guerra in Ucraina ci troviamo di fronte a una guerra di tipo «classico» con due eserciti che si scontrano, diversamente da altri conflitti in corso dove i protagonisti sono diversi e si basano su divisioni etniche, religiose o tribali. Si tratta tuttavia di una guerra asimmetrica: da una parte l’esercito russo, con carri armati e missili e dall’altra un uso prevalente della comunicazione digitale. Proprio questa «digitalizzazione» diffusa in Ucraina permette la partecipazione alla resistenza di gran parte della popolazione: i ragazzini che usano i loro programmi per inviare ai droni le indicazioni sugli obiettivi da colpire.

E SICURAMENTE questa abilità favorisce l’invio di immagini che arrivano da ogni angolo del paese e superano in velocità la diffusione di servizi da parte dei giornalisti. Sono notizie, immagini non controllate e non controllabili – per la tirannia del tempo – che ci portano ben oltre le fake news e la post-verità. «Sono i testimoni sul terreno che diventano redazione» e l’inviato è sempre più ridotto a raccoglitore «di documenti e testimonianze rastrellati nella rete mediante sistemi di ricerca e di post-produzione digitale», scrive Mezza.

Quando Elon Musk ha messo a disposizione di Zelenski i suoi 1800 satelliti la superiorità tecnologica e informatica degli ucraini si è manifestata definitivamente: chiunque con uno smart phone e un drone da 80 dollari poteva indicare obiettivi da colpire. I generali russi colpiti sono stati individuati così, utilizzando i loro telefoni intercettati. E verrebbe da chiedersi come hanno potuto essere così ingenui, visto che il processo di ibridazione della guerra era stato ampiamente previsto proprio dal capo di stato maggiore russo, il generale Valerj Gerasimov, ma la risposta è semplice: hanno dovuto usare le infrastrutture ucraine non avendone a disposizione di proprie. E lo stesso vale per le centinaia di soldati russi le cui comunicazioni con la famiglia sono state intercettate e utilizzate. Ma Elon Musk è un privato cittadino, ha scelto di supportare gli ucraini ma avrebbe potuto fare il contrario e dare una mano ai russi. E questo apre, come ovvio, inquietanti interrogativi sul potere assoluto di chi possiede i mezzi di comunicazione.

MEZZA SI INTERROGA poi sul ruolo degli algoritmi che nelle redazioni di tutti i giornali online stabiliscono orari e financo titoli delle notizie da pubblicare in base a definite politiche di marketing. E paventa il rischio, non tanto lontano, che a un certo punto saranno gli algoritmi stessi a scrivere gli articoli e il ruolo del giornalista non si capisce bene quale potrà essere. Certamente è su questo terreno che avrà senso una contrattazione sindacale ovviamente non per contrastare luddisticamente le tecnologie informatiche ma per almeno controllarne gli effetti.