Bernard Stiegler è uno dei più importanti filosofi della tecnologia. Lunedì 7 ottobre ha tenuto una conferenza a Roma invitato dall’accademia di Francia, a villa Medici, dove ha presentato la traduzione del suo libro La società automatica (pp. 350, euro 24), primo capitolo di una serie che ha come obiettivo l’analisi del capitalismo contemporaneo e la rifondazione del sapere in una realtà ad alto tasso tecnologico. Il saggio inaugura la collana della casa editrice Meltemi curata dal gruppo di ricerca militante Ippolita (relatore a Villa Medici era Marco Liberatore, che di Ippolita fa parte).

Stiegler ha scritto più di trenta libri sulla tecnologia come centro pulsante della filosofia, che, però, lui intende non come una disciplina teorica che riguarda solo gli addetti ai lavori, ma come una prassi per la trasformazione rivoluzionaria della società. Lo studioso progetta un’economia contributiva in collaborazione con un gruppo di più di novanta esperti interdisciplinari con cui lavora all’Institut de recherche et d’innovation, che dirige. Pensa che la tecnologia possa essere considerato un pharmakon nel senso socratico, cioè che possa essere sia un veleno, sia un rimedio. È convinto che non sia possibile pensare l’antropologia umana senza gli strumenti che l’uomo ha progettato, che sono parte integrante della sua identità, in contrasto con i filosofi di matrice heideggeriana che ritengono che la tecnologia sia esterna ed estranea all’essenza dell’umano. In particolare gli strumenti che hanno prodotto l’esternalizzazione della memoria – che vanno dalle immagini rupestri, alla scrittura, alla stampa, alla fotografia, alla radio, alla televisione fino ad arrivare alle tecnologie digitali – sono cruciali per la riorganizzazione dell’identità umana. Questi strumenti consentono, infatti, «le ritenzioni terziarie», cioè un modo per costruire i nostri ricordi, le nostre memorie esternalizzandole e quindi ipostatizzandole.

Tali tecniche, che sono anche un potenziamento della nostra capacità cognitiva, hanno un potente peso politico perché possono essere utilizzate come meccanismi di riorganizzazione e eterodirezione dell’interiorità e dell’identità umana. Ma, nello stesso tempo, sono proprio queste tecniche per l’esternalizzazione che possono invece consentire il rimedio, e permettere all’umanità di lavorare contro la tendenza entropica del sistema che abbiamo costruito – secondo Stiegler – e che, portata alle estreme conseguenze, conduce alla catastrofe implosiva dell’indistinzione, in cui nulla ha più senso e non esiste né la variabilità né la capacità creativa che possa contrastare l’assenza di senso.

Bernard Stiegler

La prima domanda sulla società automatica riguarda la questione della tecnica e della tecnologia, che manifesta il suo potere di cambiare la comunicazione, le relazioni sociali le dinamiche economiche e politiche. In passato la Rete è stata vista come lo strumento e l’ambito che avrebbe consentito una liberazione dalle forme di oppressione e illibertà esistenti nella società. Anche lei è passato dall’adesione a questo punto di vista a uno scetticismo sempre più radicale. Come si è compiuta questa modifica di prospettiva?
Abbiamo assistito al tramonto della società industriale dal quale è sorta la società automatica. E nella società automatica i lavoratori che contano non sono quelli manuali, bensì quelli che hanno a che fare con il sapere, la conoscenza. Una tendenza che non riguarda solo gli Stati Uniti ma tutto il mondo. I nuovi produttori devono pensare, riflettere, elaborare, anche se all’interno di una logica che porta inesorabilmente alla catastrofe, all’implosione del sistema economico. Se tutta la vita diventa oggetto di calcolo, cioè se tutto è misurato, prima o poi non ci sarà nulla che produce invenzione, innovazione.

Sta sostenendo che la società automatica sia destinata a scomparire?
Dico solo che questa tendenza alla misurabilità può produrre ricchezza e prosperità, come abbiamo visto in questi decenni. Ma poi la crisi insorge a causa di questa attitudine radicale a formalizzare matematicamente la vita umana. Lo abbiamo visto con la crisi inaspettata dei subprime nel 2008. Alan Greenspan, all’epoca a capo della Federal Reserve statunitense, va al Congresso perché i rappresentanti del popolo americano vogliono capire il perché la sua potente banca e centro di osservazione dell’economia non ha saputo prevedere il bailout. Beh, cosa risponde Greenspan? Sono gli algoritmi che conducono il gioco, prendendo le decisioni. E noi umani non sappiamo neppure quale sia la logica che li muove. Ecco: la società automatica è una società dove vige il potere governamentale degli algoritmi.
Inoltre, il lavoro diventa una risorsa scarsa e intermittente, all’interno del quale manifestare il tuo talento, le tue capacità intellettuali per accedere al reddito. Intermittenza, talento, creatività: sono dunque questi gli oggetti del desiderio che le imprese inseguono. Il loro obiettivo è innovare, ma formalizzando matematicamente tali capacità e talenti, perché siano poi le macchine a poterle sostituire, facendo a meno progressivamente dell’intervento umano, un residuo dal quale attingere tutto quel che serve per poi gettarlo in qualche discarica sociale. Per questo, uno degli obiettivi da raggiungere è una sorta di reddito di deproletarizzazione generalizzato.

Un reddito di cittadinanza radicale, dunque…
Quella che propongo è l’overture di una sinfonia che attende ancora di essere scritta. Per quanto mi riguarda sullo spartito mi sento di mettere alcune note, a partire da quella dell’entropia. La società automatica ha infatti un insopportabile grado di entropia. C’è quella climatica. Si scrive e si parla di era dell’antropocene, cioè dei cambiamenti irreversibili introdotti dall’attività umana sulla natura. L’inquinamento, l’esaurimento delle materie prime attestano che il rischio della scomparsa della specie umana non è un allarmismo fuori luogo. Sono rimasto molto colpito dalle mobilitazioni del Friday for future. Una generazione nata e cresciuta nella società automatica che si mobilita per imporre un cambiamento di rotta ai potenti della Terra per evitare che la governamentalità algoritmica distrugga il pianeta. Mi sembra un fattore positivo.
La seconda entropia è quella biologica, cioè la riduzione della biodiversità. Questo fattore sta provocando trasformazioni radicali nelle abitudini alimentari e nella nostra relazione con le altre specie. C’è poi l’entropia informatica. È l’aspetto forse più studiato a livello epistemologico, ma pochi si sono concentrati sul fatto che nelle reti entropiche emerge come fattore dominante la stupidità. Donald Trump, e molti esponenti politici come lui, sono personaggi che si muovono con agio nelle reti entropiche, perché la loro banalità, la loro tendenza ad affermare assunti stupidi è congeniale al funzionamento di queste reti comunicative e sociali. Esempio di reti entropiche sono i social network.
Infine, c’è l’entropia dell’economia. È quanto dicevo prima a proposito della crisi dei subprime, combinato disposto di entropia e governamentalità algoritmica. In questa situazione, non conta tanto stabilire se Macron o Trump esercitano davvero il potere. Si limitano a stabilire blacklist per indesiderati e potenziali nemici dell’ordine costituito. Diciamo che sono agenti – e questo è evidente per Trump – di un fascismo elettronico che vuol ridurre uomini e donne a marionette manipolabili dagli strumenti informatici. Il potere sta quindi nel funzionamento degli algoritmi e nelle equazioni applicate per far funzionare la società automatica.

Seguendo il suo ragionamento può farsi strada un’attitudine luddista, antiscientifica, antitecnologica. Non crede?
La strada da seguire è elaborare algoritmi che favoriscano una sorta di de-automatizzazione della società. Nessun atteggiamento antiscientifico, dunque. Semmai un certosino e costante lavoro di invenzione, di elaborazione, che riprenda l’antica e saggia abitudine della riflessione di lunga durata, del produrre pensiero solo per produrre pensiero senza nessuna finalità che non sia il piacere della scoperta, della condivisione. Quel che deve tornare centrale è lo scarto dalla norma. Nel significato originale il lavoro significava non la fatica, il travaglio, la privazione, bensì l’energia che crea l’atto. Abbiamo dunque bisogno di molto lavoro di invenzione. Nel libro chiamo tutto ciò neghentropia, alludendo alla possibilità che, dopo aver accettato che stabilire la misura di ogni cosa può portare alla catastrofe, si lavori a ripensare radicalmente il sapere, i modelli teorici dominanti, l’interpretazione della realtà. Serve un movimento del pensiero paragonabile a quello di Kant, in opposizione a Leibniz. Il filosofo della ragion pura e pratica si pose il problema di costruire nuove categorie. Dobbiamo progettare più o meno la stessa cosa. Pensare a uno sviluppo, alla creazione di sapere che favorisca la de-automatizzazione della società. Questo significa assegnare alla formazione, all’università – ma anche alle accademie che spontaneamente si costituiscono nella società, come succedeva nel Rinascimento – un ruolo essenziale non solo nella costruzione di una Weltanschauung, ma di un modo di essere che privilegi la creazione, l’invenzione, lo scarto dalla norma rispetto alla governamentalità algoritmica.