Come hanno fatto in molti, e non senza ragione, è facile sostenere che la psicoanalisi altro non sia che l’ultima espressione dell’istituto della confessione, dispositivo che, come insegna Foucault, dal cristianesimo primitivo fino all’affermazione planetaria del biopotere, non ha mai smesso di produrre menti docili. Eppure è lo stesso Foucault nel suo saggio del 1961 sulla follia a richiedere di «essere giusti con Freud».

QUESTA RICHIESTA, che Derrida trent’anni dopo trasformerà in ingiunzione, è la pista di ricerca del denso saggio Tra la vita e la morte di Cristiana Cimino (manifestolibri, pp. 123, euro 16). Come recita il sottotitolo del libro, quella di Cimino è una psicoanalisi scomoda, in quanto non addomesticabile e non addomesticante. In un intenso lavoro di scavo, l’autrice si mette infatti sulle tracce di un Freud oscuro, di quel Freud che, a partire almeno dal 1915, si dedica alla tematizzazione delle forze del negativo che agitano la psiche, la società e la storia.

Certo, esiste un Freud riduzionista, misogino, eteropatriarcale, un Freud capace di opporre resistenze nevrotiche alle sue stesse scoperte quando troppo disturbanti – e Cimino su questo non fa sconti, pur affrontando con impareggiabile delicatezza le «debolezze» del padre della psicoanalisi accomodante. Ma esiste anche un Freud minoritario e rimosso che, come tale, non può che ritornare e che Cimino insegue. È il Freud che si incammina là dove tutti esitano, che si muove sui bordi della morte e del femminile – e, «il bordo», ci ricorda Derrida, «non è mai un luogo di tutto riposo», è un luogo scomodo appunto –, su quei bordi cioè che, pur attraversando la teoria e la pratica psicoanalitica, ne costituiscono il territorio proibito, il fuori.

Per questo Freud pensare la morte non è «solo» l’accettazione che «la morte esiste» e che gli «umani sono caduchi», ma la scoperta di quanto di familiare c’è nell’estraneo (e viceversa), «il carattere demoniaco» della ripetizione che «vuole tornare a quello che c’era prima della vita», all’inorganico. A cui si aggiunge la constatazione scabrosa e perturbante che Eros e Thanatos sono stretti in un nodo indissolubile costituito dal piacere, che il desiderio è «desiderio di non-vita» e che la negazione non prelude a una sintesi pacificante ma rende esplicito che «la morte è contenuta nella vita».

È IN QUESTA PIEGA aggrovigliante che si s/taglia il femminile, quel «sentimento oceanico» di ritorno all’indistinto, rifuggito dal Freud domestico ma che affascina il suo sosia unheimlich, quell’«eccedenza che sfugge alla presa simbolica», il resto che dissesta l’identico e l’identitario. Con Lacan, la morte e il femminile si fonderanno nel Reale. Nell’inconfessabile che, se vogliamo essere giusti con Freud, dobbiamo «prendere come punto di partenza» per considerare la vulnerabilità e la caducità «non come una regressione ma come una conquista», per poter «guardare il mondo con sguardo grande di animale che nulla prefigura ma solamente accoglie».