Doveva essere una primavera bellissima. Per il mese di marzo avevo concordato un mese di visiting alla School of Slavonic and East European Studies (SSEES) dell’University College a Londra. Con il collega Jakub Benes, docente di storia dell’Europa orientale, specialista di storia del brigantaggio nei territori ex asburgici dopo il 1918, e la lettrice di sloveno Maja Rancigaj, sua moglie, avevamo definito il tema e il titolo della mia conferenza che avrei tenuto a fine mese: Da Slovenka a Ženski svet, il femminismo sloveno a Trieste tra cosmopolitismo e lotta nazionale, 1897-1928. Per il resto avrei lavorato nelle biblioteche e negli archivi londinesi. Assetata di periodi di studio, esclusivamente dedicati alla ricerca che conduco nell’ambito del progetto europeo ERC Advanced dedicato alle donne nei periodi di transizioni postbelliche nel Nord Adriatico, avevo prenotato un bell’appartamento a Bloomsbury, a due passi dalla British Library e vicino alla biblioteca del SSEES. Tutto era predisposto per il meglio: i voli erano prenotati con il rientro previsto per un fine settimana a metà mese, così da vedere mia madre e partecipare a una conferenza dedicata a Ivanka Hergold, scrittrice slovena di origini carinziane, trasferitasi a Trieste per ragioni sentimentali, un’intellettuale assai fine, a volte anche scontrosa ma soprattutto esigente nei confronti di sé e degli altri, e per questo motivo non molto ben accetta negli ambienti della minoranza slovena di Trieste, dove ad aver spazio, troppo spesso, è soprattutto la mediocrità. Ci tenevo molto a partecipare a quell’incontro per il filo tenue che ci lega, per le discussioni fatte durante gli incontri fugaci al Teatro sloveno, per le vie cittadine, sul marciapiede che separa la Sinagoga dalla Biblioteca degli studi sloveni, in cui finivamo a constatare la difficoltà di sopravvivere, soprattutto se donne e intellettuali, in un ambiente che non ama percorsi troppo audaci e non tollera la sfida del nuovo.

A fine febbraio l’epidemia vista da Trieste sembrava lontana, i notiziari davano sempre più spazio al Coronavirus, ma la situazione sembrava aggravarsi principalmente in Lombardia e nel Veneto. Le terre di confine sembravano ancora sane e salve, incluse nelle prime restrizioni più per precauzione che per necessità. Nel veder aggravarsi la situazione decido però di cambiare i voli, prenotati su Venezia, e partire da Lubiana. L’idea di essere messa in quarantena, in quanto cittadina italiana, appena sbarcata sul suolo inglese mi turbava. La possibilità di viaggiare con il passaporto sloveno, seppure con la residenza triestina, invece mi tranquillizzava. Contavo su un occhio distratto dei controllori. Arrivata a Standsted, il 2 marzo, scopro che non vi sono controlli e che nel Regno Unito si entra con la facilità di sempre. Sento in vicinanza la parlata veneta di un gruppo di donne, che avevano probabilmente preso quello stesso volo che avevo disdetto qualche giorno prima. Raggiungo il treno, poi salgo sulla metro. Tutto sembra normale. Le stazioni sono affollate, i punti di ristoro a King’s Cross, dove esco dalla metropolitana, anche. Male che vada, mi dico, avrò qualche settimana in più di vita senza restrizioni.  Di fatto, inizio a soppesare ogni mia scelta, dove sedermi e a chi avvicinarmi, valuto la possibilità del contagio nel primo bistrò dove mi siedo.

Il giorno dopo mi trovo con Jakub, che mi aiuta a sbrigare le formalità necessarie per accedere alla biblioteca della SSEES. Andiamo a mangiare in un ristorante vicino, nel centro quacchero di Friends House, consigliato da Maja. I tavoli sono a debita distanza, ma io e Jakub siamo pur sempre vicini e io so che sua moglie dovrebbe partorire a giorni. Gli dico che apprezzo la sua generosità e la disponibilità nel vedermi.

Inizio a frequentare la biblioteca dell’SSEES, mi lavo ossessivamente le mani ogni volta che esco e entro dalla sala di lettura, cerco di sedermi lontano dagli altri, ma con il passare delle ore tutti i posti vengono occupati. Quando qualcuno dei ragazzi che sono seduti intorno a me starnutisce, lo fulmino con sguardo minaccioso. Quasi tutti sono pesantemente raffreddati e spesso sprovvisti di fazzolettini. Sondo la profondità dei loro raffreddori, solo tosse e starnuti normali? Decido di resistere, ogni tanto mi copro la bocca con la sciarpa, ma la soddisfazione di poter addentrarmi nella mia materia, di leggere e sfogliare i libri che trovo sugli scaffali, allontana la mia paura. Anch’io ho qualche fastidio alla gola e un po’ di congiuntivite, spero che non sia nulla di grave. Decido di non contattare, almeno nella prima settimana, gli amici e i colleghi che avrei voluto vedere a Londra e a Oxford intuendo il loro timore di incontrarmi, arrivo pur sempre dall’Italia, seppure via Lubiana. Scrivo solo a Katja Škoberne, lubianese, da anni a Londra, che mi dà appuntamento per un aperitivo al Victoria and Albert Museum. Ci incontriamo e ci salutiamo con qualche precauzione e raggiungiamo la sala del club riservata agli amici del museo. Appena sedute, ci spalmiamo sulle mani il gel disinfettante posto ben in vista sul bancone del bar. Non nascondo le mie paure rispetto a un deterioramento della situazione anche nel Regno Unito, ma Katja mi rassicura, a casa ha scorte di cibo per tre mesi, mascherine, guanti. Mi dice che all’occorrenza posso contare su di lei, ha spazio sufficiente anche per ospitarmi. Si è organizzata bene, ha comprato gel e altri prodotti disinfettanti per tempo, si è procurata del cibo in scatola già ai tempi della Brexit, come altri inglesi. Insomma, posso stare tranquilla.

Ogni tanto guardo la sala quasi vuota, i pochi tavoli occupati, l’atmosfera è sommessa ma non cupa. Ordiniamo del vino a un giovane cameriere dall’accento italiano e poi ci perdiamo nel chiacchierio che ricuce il tempo e i nostri vissuti lasciati in sospeso da quando non ci siamo più viste. Mi felicito per la sua ripresa professionale dopo il fallimento vissuto a causa della crisi del 2008, quando ha perso tutto, la sua attività imprenditoriale, il successo lavorativo e la tranquillità personale. So che allora aveva deciso ostinatamente di rimanere a Londra e resistere, anche se rientrando a Lubiana avrebbe senz’altro trovato lavoro. Ora fa la speech coach per importanti personalità e professionisti del mondo dei media e della finanza britannici. A fine serata, prima di entrare nella metro, si spalma sulle mani un unguento che ha un odore particolare, quasi sgradevole. Me lo offre e lo spalmo anch’io. Dovrebbe allontanare il malaugurato virus, sembra che fosse usato ai tempi della peste. Ridiamo. Concordiamo di rivederci, di andare a teatro, insomma di protrarre la normalità finché si può.

Il proseguo dei giorni li passo in biblioteca, scegliendo con accuratezza il posto, guardando chi ho di fronte. Incontro ancora Jakub a pranzo, ci stringiamo le mani. Lui prima di sedersi al tavolo della mensa universitaria va a lavarsele nel bagno, io preferisco usare il mio gel. Maja invia le sue scuse per esser rientrata a casa. Dato che era venuta in un ospedale vicino a fare dei controlli pensava di raggiungerci a pranzo. Poi, data l’imminenza della data del parto, ha preferito tornare a casa. Meno male. Continuo a pensare al coraggio di Jakub, che esce a pranzo con me. Ha un corpo atletico, di sicuro fortificato sulla costa californiana dove i suoi genitori si sono trasferiti dalla Cecoslovacchia. Lo informo che a metà mese rientrerò a Trieste per tre giorni e che porterò con me alcune edizioni del volume dedicato al primo giornale sloveno femminile pubblicato a Trieste tra il 1897 e il 1903. Gli chiedo se gli serve qualcosa. Mi chiede dei pocket coffee. Di solito è la sorella che risiede in Toscana a rifornirlo, ma con l’epidemia che si sta diffondendo in Italia non sa se la vedrà presto.

Nei notiziari della BBC che seguo alla sera si infittiscono le notizie sull’epidemia. Finalmente vedo un  primo dibattito tra esperti britannici, che si schierano contro Boris Johnson e la sua politica dell’immunità di gregge. Il calcolo dei contagiati rimane basso, ma Francesco dalla Germania mi informa sulla situazione critica negli ospedali londinesi, poco attrezzati per fronteggiare l’epidemia. La sorella del suo fidanzato Jack lavora come infermiera in uno di questi e è molto preoccupata perché i casi di Covid-19 aumentano a vista d’occhio. La Germania e la Gran Bretagna ostentano un atteggiamento da Übermensch, si infuoca Francesco, ma non la raccontano giusta sulla diffusione dell’epidemia. Come dargli torto, ma poi, quando passo davanti a una scuola, vedo che i ragazzi giocano indisturbati a calcetto nonostante piova a dirotto. Penso che forse sbaglia, i nordici si fortificano sfidando il clima ostile, cosa che noi non facciamo.

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Marta Verginella è professore ordinario di Storia del XIX secolo presso il dipartimento di storia dell’università di Lubiana e una dei personaggi di maggior interesse dell’ambiente culturale di Trieste. Storica e antropologa, studia le pratiche identitarie in aree multietniche e l’uso politico della storia nelle zone di confine.