Come annunciato all’inizio di luglio, liberi tutti. Per l’Inghilterra (nulla di tutto questo per Galles, Scozia e Irlanda del Nord) ieri è stato il cosiddetto giorno della libertà, quello in cui è stata reintrodotta la “normalità”, vale a dire il ritiro delle ultime misure di restrizione della vita pubblica a fini di profilassi anti Covid-19. Ritirati dunque i limiti numerici di affluenza a eventi pubblici come manifestazioni sportive, artistiche e culturali, ritorno dei locali notturni, mascherine ovunque indossate a discrezione. Con i più giovani che hanno ripreso a sciamare nelle discoteche, riaperte in pompa magna a corpi in movimento e a nuvolaglie di goccioline virali, come si faceva ancora nell’ormai lontano marzo 2020, prima che chiudessero (anche se da settembre l’ingresso sarà limitato ai giovani doppiamente vaccinati). Resterà il distanziamento sociale solo negli aeroporti e per chi risulta positivo al tampone. Saranno poi esentati dalla quarantena i lavoratori di settori chiave come l’alimentare, le utenze domestiche e i trasporti su rotaia.

Lo aveva detto Boris Johnson che ieri si sarebbe riaperto il grande negozio nazionale. Non senza aggiungere, con la pragmaticissima asciuttezza del negoziante, che ci sarebbero stati «altri morti» ai quali ci si sarebbe dovuti abituare. La scommessa sulla pelle dei connazionali – ma anche la propria, visti i trascorsi virali del premier medesimo – è semplice: che la massiccia opera di vaccinazione con cui il Paese ha saputo coprire in tempi record la quasi totalità della popolazione adulta sia in grado di arginare i ricoveri temuti per l’ultima impennata delle infezioni che vede quasi 40mila nuovi casi registrati ieri.
Il tutto proprio nonostante l’attuale variante Delta, l’ultima in ordine di tempo di un virus che muta più di David Bowie, abbia costretto lo stesso Johnson a un secondo round di isolamento dopo che il neoministro della Sanità Javid è risultato positivo a un tampone giorni fa.

Insomma, non lo scenario ideale per la sospensione di quella che alcuni chiamano dittatura sanitaria, soprattutto dopo le polemiche sorte attorno alla scelta iniziale degli stessi Johnson & Javid di non auto-isolarsi per sottoporsi invece a uno sperimentale modello di tampone quotidiano da riservarsi ad alcuni lavoratori delle industrie chiave: scelta che, prevedibilmente accolta come un doppio standard che questo governo conservatore fissa per sé e i propri connazionali – ha costretto il premier a fare marcia indietro e a rinchiudersi nella sua residenza agreste, la tenuta di Chequers.

Non è che l’ennesimo testacoda con sgommata di un primo ministro tentennante più del buon vecchio Carlo Alberto di Savoia. Ma “Boris” è vieppiù schiacciato tra l’incudine dei virologi e il martello degli economisti. I primi – almeno quelli eterodossi rispetto al comitato scientifico governativo – esortano alla cautela e stigmatizzano la deregulation. Bisogna dare invece ossigeno perlomeno al settore dell’ospitalità, ormai cianotico, tuonano i secondi, sebbene tra tutti sia quello che per definizione poggia sul mescolamento – e non il distanziamento – sociale. E che, con la riapertura dei locali, costituisce una bomba a orologeria la cui deflagrazione in autunno costringerebbe il Paese a rivivere in differita e a reti unificate l’incubo dell’anno scorso. Una terza ondata di ricoveri e morti insomma, come ammonisce uno studio dell’Imperial College, che teme l’intensificarsi delle mutazioni come probabile effetto collaterale di una simile politica di riapertura. E guai se la prossima mutazione si rivelasse resistente al vaccino. È l’immunità di gregge, stupido: da pecus a pecunia il passo è talmente breve da non esistere.