Dieci anni fa i popoli del Mediterraneo si sollevavano, uno dopo l’altro, contro governi dittatoriali e corrotti, accesi dal fuoco di Mohammed Bouazizi. Un incendio che si è propagato in poche settimane dalla Tunisia al resto del Nord Africa, in Egitto, in Libia e poi al Levante e al Golfo, con i fuochi siriani, yemeniti, bahraniti.

Piazze piene e bocche aperte, quelle di chi a occidente restava stupefatto dalla potenza dirompente delle richieste, dei colori, delle canzoni che riempivano le strade arabe. Non si credeva possibile che popoli dipinti da decenni come sudditi succubi e pigri potessero usare i loro corpi per avere maggiore democrazia e uguaglianza sociale.

C’è chi ha tentato di spiegare quelle rivolte con chiavi prettamente occidentali (come il ruolo dei social network, affatto preponderante vista l’allora scarsa diffusione della rete internet nei paesi interessati) e chi ha subito cambiato cavallo (i governi che in poche settimane hanno abbandonato dittatori coccolati per decenni).

Nessuno se lo aspettava. Eppure i segnali c’erano: la povertà, gli alti livelli di disoccupazione giovanile e la forbice tra i redditi elevati di minoranze benestanti e quelli di maggioranze ferme al livello di sussistenza. Tutti elementi sottovalutati dagli esperti. Alla dimensione economica delle sollevazioni popolari i commentatori hanno privilegiato gli aspetti politici delle rivolte.

Se il desiderio di una maggiore democrazia è stato senza dubbio espresso dalle popolazioni scese in strada, è vero anche che i manifestanti in Tunisia, Egitto, Libia, Siria e più di recente in Libano e Iraq puntavano e ancora oggi puntano il dito contro élite di potere che controllano enormi ricchezze a scapito dei più lasciati in povertà.

La facilità con cui l’islamismo politico ha raccolto ampi consensi dopo le rivolte e la rimozione di alcuni dittatori non è stata una conseguenza della religiosità più diffusa che da tempo si registra in Medio Oriente e Nord Africa.

Agli occhi delle popolazioni i dirigenti delle formazioni islamiste rappresentavano una alternativa vera alla classe politica tradizionale, ingorda e corrotta. La sinistra è stata incapace di intercettare quel desiderio di cambiamento nonostante gli aspetti socioeconomici alla radice delle proteste.

Gli economisti e le istituzioni internazionali prima del 2011 riferivano di dati a conferma della stabilità economica e sociale dei diversi paesi in cui è esplosa la protesta popolare. Erano numeri ingannevoli che non riflettevano la realtà sul terreno. La Tunisia per quei dati era un’economia stabile con un 5% di crescita annua del Pil. L’Egitto sulla carta registrava una riduzione della disuguaglianza di reddito dal 36,1% del 2000 al 30,7% del 2009.

La Siria, prima del 2011, ha visto un impoverimento delle aree rurali a causa della prolungata siccità e delle riforme economiche capitalistiche introdotte dopo il 2000 che hanno ridotto i sussidi garantiti in passato dalle politiche di orientamento socialista. In tutto il mondo arabo il neoliberismo e le privatizzazioni hanno impoverito gli strati popolari.

La disoccupazione giovanile in Medio Oriente e Nord Africa ha raggiunto quasi il 25% nel 2008, rispetto a una media globale inferiore al 15%. Le riforme liberiste hanno portato al rafforzamento delle reti clientelari creando non l’economia di libero mercato di cui si tessevano le lodi bensì un sistema incapace di creare un numero di posti di lavoro adeguato alla crescente massa di giovani laureati.

A dieci anni di distanza ci si scontra con realtà gattopardiane. Chi ha cambiato per ritrovarsi al punto di partenza, chi ha subito brutali restaurazioni, chi è stato fermato da guerre devastanti e pervasive. Ma soprattutto rimangono radicate le ragioni della protesta, assenza di libertà, povertà, diseguaglianze tra ricchi e poveri, mancanza di lavoro, emigrazione come unica prospettiva.

Sembra di compiere un salto in un passato buio, medievale. Eppure luci brillano in quel buio apparente, lo squarciano: la storia insegna che movimenti tanto profondi non si esauriscono in pochi mesi o in pochi anni. Intere società hanno preso coscienza di sé, la consapevolezza che il cambiamento è possibile.

Sono nati movimenti, organizzazioni, sindacati, forme d’arte con cui potersi narrare. Le giovani generazioni hanno assorbito parole d’ordine progressiste. Lo dimostrano le rivolte più recenti, quelle del 2019 in Sudan, Algeria, Libano e Iraq, ispirate al 2011 nelle rivendicazioni e le modalità di lotta (i presidi permanenti, la centralità degli studenti e delle donne, le marce del venerdì).

In questo inserto abbiamo voluto dare spazio a chi le rivoluzioni le ha realizzate, chi era in piazza, chi c’è ancora. Dare la parola per permettergli di narrare se stessi e non solo di essere narrati. I pezzi che leggerete sono scritti da loro.