Occorre giungere alla fine del libro breve e denso intitolato Com’è la poesia (Carocci, pp. 134, € 12,00) per leggerlo: all’editore che aveva proposto di scrivere Che cos’è la poesia, Pier Vincenzo Mengaldo ha pensato di rispondere con i ferri del mestiere vecchi e nuovi, declinando l’invito ad assumere compito da filosofo e rimanendo al compito di filologo, scegliendo «l’illustrazione di alcuni fenomeni tipici della poesia e dunque di alcuni aspetti del suo funzionamento», lasciando che la definizione arrivasse da una schedatura ad ampio raggio, che va molto oltre il paesaggio italiano, con esempi tolti dalla poesia europea e non solo. Leggendo si entra proprio nel fare poesia, dalle varietà metriche ai modi di titolare, dalle varianti alla condensazione, dal libro di poesia come raccolta organizzata al volgere la poesia in altre lingue. Pare dunque che dire com’è la poesia alla fine non differisca molto dal dire che cosa essa sia: procedimento che, veramente, aiuta a sottrarsi alle fumosità filosofeggianti: infatti, a ben guardare, che cosa sia la poesia nessuno lo ha detto mai se non per approssimazione, mentre descriverne e catalogarne i modi in cui si presenta è opera ben concreta. Anche qui, a patto di sottrarsi all’iper-specialismo, che, di nuovo, con la poesia ha poco o nulla a che fare: troppo perplessi lasciano analisi spinte talmente al sub-dettaglio da non lasciar più capire di che cosa si stia mai parlando. Fosse uscito nella serie dove uscì, dello stesso Mengaldo, la Prima lezione di stilistica, il libro presente avrebbe anche potuto recare come titolo Lezione magistrale di poesia a uso dei lettori: dando per scontato (come non dovrebbe essere) che i poeti sappiano che cosa facciano.
Nei quattordici capitoli del libro (definiamolo dunque un sonetto critico), non occasionali, come ovvio, i richiami a Leopardi, poeta di massima consapevolezza sia filologica sia filosofica; in particolare sul senso delle varianti secondo il criterio della dissimilazione, ovvero per differenziare non solo dentro il componimento ma dentro il libro (le varianti come sistema di continiana memoria), che tuttavia porta Mengaldo a sottoscrivere una notazione di Frye, cioè come «il ritmo sia di solito anteriore, come ispirazione e importanza, alla scelta delle parole che lo riempiono» (che è giusto, anche se, per esempio con Montale, tante volte non è così).
Anche di questo si legge nel Leopardi curato da Franco D’Intino e Massimo Natale (Carocci, pp. 334, € 29,00), un Companion all’opera che fa il punto per studenti e studiosi attraverso voci fondamentali come poesia, prosa, epistolografia, filosofia, filologia, linguistica; e attraverso le modalità dello scrivere leopardiano: ironia e comicità, lingua e stile, rapporto con l’antico. Infine lo scrivere e il leggere scrutato tramite la biblioteca. Qualcosa di diverso da una monografia a più mani: un molteplice percorrere e ripercorrere i sentieri di un pensiero che non si è mai lasciato chiudere in facili formule per la propria stessa natura, e che una volta illusoriamente raggiunto cambia direzione: «una matassa fitta e difficile da districare», avvertono i curatori, e «talvolta un luogo di battaglia, e occasione di scontri culturali e ideologici dai contorni fin troppo netti». Ma, proprio per questo, pensiero in movimento, si è talvolta detto, che ci prende «a calci negli stinchi», come ha scritto una volta Zanzotto.
Il capitolo sull’eredità di Leopardi riguarda l’accoglimento via via più intenso dell’opera, in particolare dopo la pubblicazione dello Zibaldone e fino alle varie forme di leopardismo (indagate nel corso degli anni e secondo diverse prospettive, da Renzo Negri, Gilberto Lonardi, Anna Dolfi). A un certo punto si presume che il giovane Caproni sia stato ispirato dalle lezioni leopardiane di Giuseppe Rensi, livornese come lui. Rensi aveva intuito prima di ogni altro che in Leopardi era dato osservare il pensiero poetante in atto (molti anni occorreranno prima che distesamente Antonio Prete ne desse una ampia e argomentata definizione). Ora le pagine del filosofo, che all’inizio del Novecento coglievano precocemente il nesso Leopardi-Nietzsche, sono raccolte sotto il titolo Su Leopardi (Aragno, pp. 109, € 13,00) e il curatore Raoul Bruni sottolinea nell’introdurle come «il primo studio organico importante sul pensiero leopardiano» tragga molti spunti da Rensi: si tratta di La filosofia di Leopardi di Adriano Tilgher, ora riproposto dallo stesso Bruni (sempre per Aragno, pp. XXV-180, € 15,00) con l’aggiunta di altri studi e scritti finora dispersi. Pubblicato per la prima volta nel 1940, il libro di Tilgher ha avuto alterna fortuna, prima per il dettato crociano che dichiarava inammissibile Leopardi filosofo, poi per l’avvio di una riflessione sullo Zibaldone di moto opposto e contrario, inaugurata – come noto – dal Leopardi progressivo di Cesare Luporini e da La nuova poetica leopardiana di Walter Binni, entrambi del 1947, e proseguite poi nei volumi di Sebastiano Timpanaro. L’occasione è buona per tentare ancora una volta di districare la matassa.