Nel 36 a.C., il generale cinese Ch’en T’ang cinse d’assedio la fortezza di Chihchih (Zhizhi), caposaldo orientale dei domini di Jzh-jzh, Shan-yü (re-imperatore) degli Hsiung-nu (Unni), ai confini dell’Impero cinese. Le cronache cinesi raccontano che durante una delle sortite dei difensori della fortezza un drappello di circa 150 soldati si era disposto nella formazione da battaglia «a squame di pesce» (lín).

Dopo la conquista della fortezza, Ch’en T’ang, che aveva forzato gli ordini dell’Imperatore falsificandone un decreto per iniziare quella campagna bellica, aveva esibito all’ imperatore e alla corte imperiale, a dimostrazione del suo successo, una serie di tavole dipinte che illustravano le diverse fasi dell’assedio e della conquista della fortezza unna.

In un saggio famoso dei primi degli anni ’40, Homer Dubs, un sinologo di Oxford, aveva sostenuto la tesi che la formazione da battaglia «a squame di pesce» non fosse che la «testuggine» romana – un modo di disporsi dei soldati a piedi con gli scudi tenuti in alto di piatto e sovrapposti ai margini a formare una difesa contro le salve di frecce scagliate «a candela» e a quel tempo sconosciuta agli Unni.

E, in un saggio di poco posteriore, dopo che il sinologo olandese J.J.. Duyverdak nel 1938, aveva scoperto delle tavole che descrivevano la battaglia di Chihchih, Dubs aveva poi affermato che l’esibizione di quelle tavole doveva probabilmente riflettere il costume dei trionfi romani nel corso dei quali venivano mostrati, appunto, dei dipinti ad illustrazione della gloria in battaglia del generale trionfatore.

La tesi di Dubs è che alcuni del legionari, dopo la disfatta romana di Carre contro i Parti nel 53 a.C., fossero sfuggiti alla prigionia viaggiando verso oriente e fossero stati adibiti dagli Hsiung-nu nella difesa di Chihchih; che essi avessero impiegato in battaglia la formazione «a testuggine» e che avessero poi consigliato al conquistatore cinese di mostrare i segni della sua vittoria come era d’uso nei trionfi romani, con i dipinti esibiti alla corte.

Oltre alla «testuggine» e ai dipinti della conquista di Zhizhi, un ulteriore elemento pareva confermare la presenza di un drappello di legionari romani in Cina nella seconda meta del I secolo a.C.: «a quei «legionari» venne concesso di insediarsi in una nuova città, da loro fondata, ai confini Nord-occidentali dell’Impero cinese, nella regione dell’odierno Gansu, e questa città venne chiamata Liqian. Liqian era il nome che nelle antiche fonti cinesi indicava Roma e il suo «impero».

La tesi di Dubs fu accolta dapprima con un notevole scetticismo ma nel tempo altri indizi a sostegno apparvero all’orizzonte scientifico della questione.

Negli anni ’80 del secolo scorso, nella regione del Kara-kamar, nell’odierno Uzbekistan, l’antica Bactria, vennero scoperte delle iscrizioni di difficile lettura, una delle quali secondo Riccardo Cardilli – uno degli studiosi che hanno con più profondità affrontato la questione – sarebbe certamente latina e con alta probabilità attribuibile a un legionario romano.

Il luogo dell’iscrizione, a quasi 1700 kilometri dalla più orientale delle iscrizioni latine mai rinvenute, sarebbe sulla via del viaggio dei legionari verso Liqian.

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La tesi della romanità dell’insediamento di Liqian è ora stato accolto in Cina come un fatto accertato e in un recente volume. The Roman Legions that Vanished, pubblicato in versione bilingue (cinese e inglese) nel Gansu nel 2007, se ne raccolgono fatti e testimonianze scientifiche.

Della città resta oggi ben poco: il frammento di un antico muro, un padiglione e un colonnato (di finte rovine) eretti al tempo d’oggi nelle vicinanze a segnare il luogo dell’antica città.

Ma in tempi recenti, elementi ulteriori hanno appoggiato la tesi di Dubs.

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Nella regione attorno a Liqian, oggi vivono dei cinesi dai tratti somatici insoliti per quelle regioni. Studi sul Dna degli abitanti della zona hanno mostrato notevoli somiglianze del loro patrimonio genetico con quello caucasico. Molti di loro hanno capelli rossi e occhi azzurri e in alcune delle sepolture scoperte da poco si sono trovati scheletri di uomini alti più di un metro e ottanta: tutte caratteristiche somatiche del tutto estranee a quelle delle popolazioni sino-mongoliche dell’area.

Queste caratteristiche somatiche sono evidentissime nel personaggi che appaiono ai visitatori d’oggi nelle vicinanze del muro «romano» di Liqian: uomini con gli occhi a mandorla, capelli rossicci, zigomi per nulla mogolici, vestiti di corazza, elmo, gambali e armati di gladium.

I legionari dunque (dopo la sconfitta di Crasso a Carre nel 53 a.C. o forse più probabilmente a seguito della ritirata di Marco Antonio nell’altra sfortunata campagna contro i Parti nel 36 a.C.), dopo un viaggio di molte migliaia di miglia verso oriente, avevano trovato una nuova casa in una città fondata da loro col nome cinese di Roma ai margini del deserto di Gobi e nuovi concittadini ai confini settentrionali dell’altro grande impero del loro tempo.

Come ha scritto un noto orientalista italiano, Mario Bussagli, i legionari romani, «deportati nelle regioni dell’est (…) devono essere riusciti a fuggire e devono aver ritrovato, sotto la variegata insegna di Chihchih (ma poi anche dell’imperatore cinese n.d.a.) quella dignità e quella libertà che sembravano perdute per sempre».