Le grandi lamentazioni sulla crisi della partecipazione poi lasciano il tempo che trovano: sono anni, oramai, che assistiamo al fenomeno dell’astensionismo asimmetrico e intermittente: gli elettori vanno a votare se e quando sentono una qualche motivazione, o percepiscono un’incertezza sul risultato, e quando le candidature locali sono sufficientemente mobilitanti. Con tutta evidenza questi fattori hanno pesato variamente sul risultato negativo del centrodestra, ma hanno anche probabilmente prodotto elevati livelli di astensione negli ex-elettori 5stelle.
Alle prossime politiche cambieranno ovviamente tutti gli scenari; e del resto, lo stesso Pd si dovrebbe interrogare sulla staticità che da molti mesi i sondaggi (tutti quelli più seri e accreditati) attribuiscono al partito democratico, con un livello che non sembra schiodarsi dal 18-20%. Viceversa, i risultati deludenti (e ampiamente attesi) del M5S a livello locale, sembrano coesistere con una tenuta significativa del consenso di opinione a livello nazionale, e consiglierei prudenza a tutti coloro che vedono già tramontata la leadership di Conte.

C’è da sperare che l’evoluzione di questo contesto politico convinca le forze maggiori (anche nel centrodestra) che la soluzione più ragionevole e saggia per giungere alle elezioni rimanga quella di una riforma elettorale in senso proporzionale.  Alle ragioni di principio, già più volte richiamate in queste pagine, se ne possono aggiungere altre, forse più «contingenti» ma non per questo meno importanti. Rimango convinto che la partita è aperta (anche se si giocasse solo su un terreno strettamente bipolare), ma in ogni caso bisogna mettere in sicurezza gli equilibri costituzionali: non si può rischiare – se rimane in vigore l’attuale legge – che si creino super-maggioranze, in un Parlamento peraltro impoverito dalla riduzione del numero dei parlamentari. Una legge proporzionale metterebbe fine alla farsa di un finto bipolarismo e costringerebbe tutte le forze in campo a definire un proprio autonomo profilo politico e programmatico.

E su questo punto, in particolare, il lavoro non mancherebbe, anche a sinistra: in varie occasioni, anche attraverso il lancio delle cosiddette «agorà Democratiche», il Pd ha evocato la necessità di un suo rinnovamento, di un suo ri-radicamento popolare, di un’«apertura» a nuove forze che dovrebbero e potrebbero dare nuova linfa al partito. Bene, ma in che modo? D’altra parte, il vuoto totale a sinistra del Pd (ci sono buone esperienze di liste locali, è vero, che lavorano bene all’interno delle coalizioni di centrosinistra; ma non si intravvede nessun progetto credibile nazionale in vista delle elezioni, che non sia l’ennesimo, improvvisato cartello elettorale a cui non crede più nessuno), rende sempre più plausibile l’idea che il «rientro» o «l’ingresso» nel Pd sia l’unica soluzione che potrebbe permettere comunque – a chi ne ha voglia – di continuare a dare un contributo di idee e di battaglia politica.

Ma bastano le volenterose «agorà» a rimediare? Il Pd dovrebbe cominciare a dire e a pensare già da ora quando e come intende fare un vero congresso (non le «primarie aperte» per il nuovo segretario). E come si potrà rendere democraticamente «agibile» e «praticabile» il Pd. Se ne dovrà riparlare.

Per intanto, mi unisco alle parole di Norma Rangeri: ho 65 anni, mi sono iscritto al Pci nel 1972, quando ne avevo 16. Ebbene, è per me fonte di umiliazione e di forte disagio vedere sulle schede elettorali il proliferare di simboli che cercano di evocare il vecchio partito: mi rivolgo ai titolari di questi «prezioso» capitale: piantatela, per favore!, è un’offesa alla memoria del Pci! Ma davvero siete così presuntuosi da pensare di poter far rivivere una storia gloriosa, che è giusto ricordare e raccontare, ma che certo non merita di essere così involgarita (e umiliata da percentuali di voto men che irrisorie)?