«Mostreremo al mondo di che cosa è capace il popolo di Hugo Chávez», dice una partecipante alla manifestazione del popolo bolivariano, in questo fatidico giorno dell’«ultimatum». Un uomo ha trasformato un paio di occhiali negli occhi stilizzati di Chávez e mostra la scritta su un cartone: «L’Onu fermi questa corsa di squallidi contro il Venezuela!». Un mare di maglie rosse, bandiere, invettive contro «Trun» (Trump). Per ore e ore sono arrivati con i pullman in attesa della sfilata, magari ingannando l’attesa con gli scacchi.

In questi giorni, gli abitanti di Caracas nascondono la preoccupazione dietro miriadi di mobilitazioni. «Faremo di tutto per non finire come la Siria, come la Libia» diceva venerdì Eliana, impiegata del Banco de desarrollo de la mujer mentre, scesa dall’enorme e affollatissimo – ma sempre gratuito – BusCaracas, si dirigeva alla metropolitana La Hoyada, affollata di donne e uomini in rosso. Nella metropolitana, il signor Andrade spiegava perché il servizio è gratuito: «Per aiutare un po’ la gente, in questa crisi».

Per strada, bancarelle di frutta e generi alimentari a prezzi quasi europei. Non è lì che fanno acquisti le persone con un salario minimo di 18.000 bolivares: i pacchi alimentari mensili o bisettimanali forniti dal Clap, sistema pubblico che raggiunge 6 milioni di famiglie con la distribuzione affidata ai condomini, non bastano certo per tutto ma costano solo 500 bolivares. Sui mezzi e per strada comincia a far caldo: nelle mani delle persone la borraccia dell’acqua del rubinetto (la penuria ha fatto tramontare parzialmente la moda delle bottigliette).

Sui mezzi, niente accaniti lettori di smartphone: lo hanno in pochi, ed esibirlo non va bene. Chi ne ha uno riceve e manda di continuo notizie, esortazioni, affermazioni di orgoglio patriottico, sfottò contro il golpista Guaidò e due decaloghi a tinte fosche: «Ecco che cosa ti succederebbe in caso di invasione statunitense» e «Vuoi le risposte a queste domande?» (tipo: «quanti iracheni sono morti dopo il 2003?»). Alla fermata La Bandera, un signore con un pacco di uova pericolosamente in bilico (sono 25, per 5.000 bolivares) indica l’ingresso dell’università bolivariana. Al quarto piano, l’agrocologo Miguel-Angel Núñez tiene una conferenza su «Ecosocialismo e guerre»: «Un altro modello di civiltà, come quello che con tanti errori e limiti siamo cercando di costruire, è l’antidoto alla guerra totale permanente. E non dobbiamo abbandonare questa idea neanche nell’emergenza, mentre contro il Venezuela è in corso una guerra ibrida».

«Sono molto orgogliosa di far parte di un paese che non ha mai fatto guerre di aggressione» dice Alexandra, della Marcia mondiale delle donne, nel corso di un incontro al centro culturale La Estafeta (si chiama così in onore delle staffette che durante gli anni 1960 e 1970 lavoravano con i movimenti clandestini). Lì vendono prodotti ecologici, fra i quali la mooncup che comprano però in Colombia. «Dovremmo produrla qui, accidenti, prima o poi si fa».

Cubano, Ernesto Wong Maestre dell’associazione Tricontinental informa che i suoi concittadini hanno raccolto tre milioni 600mila firme contro le minacce statunitensi al Venezuela, membro dell’alleanza Alba. Sono 40mila i cubani che lavorano qui, nel settore medico, educativo e agricolo; L’Avana fornisce anche medicine. E, per parlare di un paese vicino che non è certo amico (la Colombia gioca un po’ il ruolo della Turchia nella vicenda siriana), Wong sottolinea un fatto che si dimentica: «In Venezuela vivono, e ricevono gli stessi benefici pubblici dei venezuelani, quasi cinque milioni di colombiani. Il 10% delle case popolari è stato assegnato a loro».