Il presidente Obama ha fatto una puntata a Roma con 50 macchine di scorta, cibo e acqua ‘sicuri’, come se Roma fosse in Alabama. Nel suo paese a meno di due anni dall’uscita di scena i repubblicani lo bersagliano con ogni mezzo, ogni giorno, mentre i democratici sussurrano critiche temendo contraccolpi elettorali. Secondo il sondaggio di Real Clear Politics ha un gradimento del 42%. I più importanti e potenti opinionisti scrivono che questo sofisticato intellettuale nero non sa fare il presidente, non accetta consigli, aiuti. Dietro Nixon, Reagan, i due Bush vi erano uomini che facevano funzionare il governo nella direzione propria al paese del primato dell’economia. Anche Clinton vi si adattò. Obama no.

Nel primo mandato egli era stato eletto con il fondamentale sostegno delle élite finanziarie, ostili al big business del petrolio e ai dinosauri militari-industriali repubblicani. Meglio investire su un appassionato di information technology in grado di capire l’economia finanziaria. A garantire che i suoi emozionanti discorsi “sul cambiamento possibile” erano promesse elettorali, provvedeva Tim Geithner, il segretario al Tesoro, brillante cultore del capitalismo contemporaneo. Ma quando nel 2008 scoppiò la crisi di quel capitalismo, la reazione della nuova Casa Bianca fu ambigua. Da un lato quasi impose il fallimento della banca Lehmans, dall’altro si mosse perché i giochi finanziari riprendessero nel tempo più breve. L’ambiguità stava nel comportamento personale del presidente. Nel fatto che intanto stava dimostrando di tenere alle promesse elettorali. Non solo alla riforma sanitaria, ma anche agli punti della sua politica progetto. Il presidente – eletto con i voti paradossalmente congiunti dei finanzieri, dei sindacati, dei neri e degli ispanici, del 70% degli ebrei e degli studenti universitari, dell’elettorato tradizionalmente democratico – prometteva: pace tra repubblicani e democratici; la chiusura del carcere di Guantanamo; misure per l’ammodernamento delle infrastrutture, treni, autostrade, scuole pubbliche; l’aumento del salario minimo; sostegno ai disoccupati, vittime della globalizzazione. Dal bilancio quasi concluso risulta che Obama non è stato in grado di far fronte al suo programma. Eppure egli non viene solo dall’attivismo sociale nelle comunità urbane, degradate dalla delocalizzazione ma anche dalla machine politics di Chicago. E’ là che si è imposto sino a diventare senatore. Ed è là che poteva imparare da Lyndon Johnson, il presidente della Great Society, il politico che usò ogni leva su Senato e Congresso per dare anche agli americani un po’ del welfare europeo. Le misure di welfare di Obama sono state respinte con una virulenza quasi impolitica, quasi razziale. Come se l’elettorato bianco si fosse stretto al suo establishment bianco, nel big business e nelle sedi politiche, per dimostrare a Obama che i suoi studi ad Harvard e le sue esperienze a Chicago, non bastavano a farlo riconoscere come il loro “comandante in capo”. Al quale si dovrebbe rispetto che invece i mass media, grandi e piccoli, gli negano attribuendogli anche la perdita di prestigio dell’America nel mondo.

L’accusa è che il mondo ha smesso di avere paura dell’America. Proprio quando con l’invenzione dei droni, con l’autonomia per il gas e con la grande finanza tornata a brillare, il grande paese dimostra la sua potenza.

Una potenza che il presidente assicura non sarà usata nella vecchia maniera. E dunque come promesso si deve andar via dall’Iraq e dall’Afganistan, non intervenire in Siria (a memoria del rovinoso intervento a metà in Libia), mentre qui e lì, nel grande Medio Oriente, l’uso dei droni elimina singoli nemici, individuati come tali dai servizi segreti. Nelle relazioni internazionali molte sono le contraddizioni da parte di colui che diventando presidente tante aspettative fatto nascere. Da un lato c’è quel famoso discorso al Cairo nel 2009 “sul nuovo inizio” nelle relazioni con i paesi islamici, ritenuto in gran misura all’origine delle primavere arabe, e peraltro appassite come si sa. Dall’altro lato vi sono i passi indietro su Guantanamo, l’impotenza nei confronti del governo di Israele, il silenzio sui paesi est europei che stanno tornando agli anni trenta. Tante parole sulla Russia e nemmeno una sull’Ungheria di Orban. Forse le delusioni in politica estera superano quelle in politica interna.

Egli è entrato alla Casa Bianca con una “sua” politica progetto, ne uscirà con un contratto milionario per un libro in cui si difenderà. La realtà è che l’intellettuale outsider non è stato in grado di imporsi sull’establishment del suo paese, che è il paese dei film dei fratelli Cohen. Il paese conosciuto prima da ragazzo nero, e da community organizer e poi da avvocato e poi da politico di Chicago. Un paese sul cui cambiamento aveva scommesso di farcela. E in tanti avevano creduto che proprio per le sue esperienze ce l’avrebbe fatta. Grande è la delusione.