Napoli, terza città d’Italia, sta attraversando un momento drammatico. Con la bocciatura del piano di rientro da parte della Corte dei Conti si materializza lo spettro del dissesto. Adesso si aprono due fronti: uno giudiziario (il comune ha annunciato ricorso alle sezioni riunite), l’altro politico, perché l’amministrazione chiede per Napoli un provvedimento sul modello di quello romano.

Indipendentemente dall’esito di questi due percorsi (che tutti i napoletani auspicano si concludano per il bene della città), il problema è come fare uscire Napoli dal pantano in cui si trova. Occorre, infatti, onestà intellettuale e riconoscere, in primo luogo, che la società napoletana vive da decenni una profonda crisi morale e civile, non solo economica, da cui non è mai uscita e, in secondo luogo, che la responsabilità politica e morale è diffusa e ricade su un’ampia porzione della società. Penso innanzitutto a quella che avrebbe il compito di svolgere un ruolo dirigente (cioè alle professioni, alle accademie, alle imprese, al ceto intellettuale, ecc.), che condivide, con il ceto politico, colpe immense. Non è vano ricordare che, a fronte di ogni scelta pubblica scellerata, che ci ha condotti a questo punto, c’è sempre stato un gruppo di interesse, un’impresa, una cricca di professionisti che ne ha tratto vantaggio particolare (scaricando i costi sulla collettività che adesso, se l’iter del dissesto sarà confermato, dovrà pagare un conto più salato di quello che stava già onorando con il pre-dissesto). Quando, nel corso delle precedenti consiliature, si concedevano gratuitamente beni pubblici per 99 anni ai privati, quando si realizzavano opere inutili (a Bagnoli e non solo), quando il comune comprava palazzi in centro spendendo cifre enormi (nonostante l’immenso patrimonio immobiliare in stato di abbandono), quando il comune ‘acquistava’ piazza Garibaldi dalle Ferrovie, quando il Comune si impegnò a sborsare 4 milioni di euro per il marchio del Forum delle culture o quando, per giungere a questa consiliatura, la città spese milioni di euro per aggiudicarsi la ‘Coppa America’, voluta dagli industriali, e quando si costituì un’ennesima società per gestire l’evento, ebbene, in tutti questi (come in altri) casi la decisione non fu mai una scelta isolata della politica professionista (che, in queste occasioni, si salda in un solo corpo, al di là delle pseudo divisioni). Così, anche quando si sono gestite le partecipate come macchine del consenso (pagate cifre scandalose a dirigenti, assunto personale al di fuori di ogni piano industriale), un muro di omertà,dentro e fuori le aziende, ha reso possibile alla politica di beneficiare alcuni a danno di tutti. L’intera classe dirigente (professionisti, imprenditori, accademici, ecc.) è stata complice della politica. Non è nuova l’accusa alla classe dirigente napoletana di svolgere una funzione regressiva: la migliore letteratura meridionalista ha individuato proprio nell’arretratezza dei ceti dirigenti il maggiore ostacolo allo sviluppo della società meridionale. Tuttavia, a Napoli ci sono sempre state (si pensi a Fortunato e a Croce, a Compagna e a Graziani, da poco scomparso), e ci sono ancora, autorità morali in grado di indicarci la strada da seguire, una strada che la nostra classe dirigente, per la sua endemica mediocrità,non ha mai percorso, emarginando così dalla scena pubblica le forze più sane. Per ripartire occorre mobilitare le energie che la città ancora possiede. Napoli può uscire dal pantano solo aggregando (e formando) una nuova classe dirigente che sappia ascoltare (non isolare) i suoi uomini migliori e sappia agire in profonda discontinuità rispetto al passato.

 

*consigliere comunale a Napoli