Pedrógão Grande, 200 chilometri a nord di Lisbona, un posto sconosciuto ai più, meno di 4 mila anime. È sabato pomeriggio, spira un forte vento bollente, il tasso di umidità è pressoché zero e, visto che quest’anno ha piovuto davvero poco, è tutto secco. Fa caldo, non si resiste, sì beh ok è estate è normale, no, non è normale, perché 40 gradi in Portogallo non li fa mai e quando li fa è solo per pochi giorni all’anno.

Si boccheggia, ci si muove lentamente, si aspetta la sera, insomma i ritmi tipici di un fine settimana di giugno. Chi può va al mare, magari giù in Algarve dove l’acqua è più calda, gli altri, quelli che non possono permetterselo beh, fanno quello che possono e poi cosa importa tanto le previsioni dicono che forse pioverà, che ci saranno dei temporali che magari porteranno un po’ di refrigerio.

E alla fine è così solo che non va come si credeva che andasse. All’improvviso, intorno alle 14,30, un lampo scatena l’inferno, colpisce un albero e innesca quello che sarà il più grave incendio della storia portoghese. Insieme al temporale però la pioggia non arriva, qui la chiamano trovoada seca, e le temperature non scendono.
Come se non bastasse c’è il vento a complicare tutto perché oltre ad essere forte soffia in modo scostante, in quattro direzioni differenti e nessuno riesce a capirci più niente. Con l’apocalisse che si muove veloce sono in tanti, presi dal panico, quelli che fuggono da casa. Fuori veloci, ci si infila nell’automobile e si imbocca l’Estrada Nacional numero 236. È normale che sia così, succede ogni anno che le fiamme lambiscano le abitazioni, lo dice anche Jorge Gomes, l’onnipresente sottosegretario agli Interni che, anche lui, in passato, si è visto bruciare casa e per questo è lì a cercare di dare una mano.

Già, ma non è una buona idea, perché quei pochi metri diventano l’epicentro di un girone dantesco, in cui 50 delle 63 vittime totali troveranno la morte. Basta una curva spiegano i pompieri, e ti ritrovi di fronte a un muro di fuoco. Le immagini sono drammaticamente eloquenti: ovunque scheletri di macchine bruciate che sprofondano nell’asfalto fuso. Alcune hanno ancora le portiere aperte, perché chi era lì dentro ha cercato di fuggire in fretta, neanche il tempo di chiuderle. Così, dopo avere abbandonato casa, si cerca di allontanarsi dalla trappola ma è impossibile.
Sull’EN 236 è come se si fosse combattuta una guerra, si mobilita un esercito di 2000 pompieri, arrivano i Canadair da Spagna e Italia. Anche l’Europa promette di mobilitarsi. Repentinamente la notizia si diffonde con la stessa rapidità dell’incendio, in pochi istanti è il mondo intero a parlarne. I media enfatizzano molto la preghiera di Papa Francesco all’Angelus domenicale e la solidarietà di Pedro Sanchez nel comizio finale al congresso del Psoe.

Le bandiere sono a mezz’asta, non si pensa ad altro, questo nonostante domenica pomeriggio abbia giocato la nazionale. In campo, contro il Messico, c’è anche Cristiano Ronaldo, ma no, questa volta, anche se normalmente tutto si ferma, sono in pochi a fare caso al calcio. Allo stadio un minuto di silenzio e le magliette dei giocatori si listano a lutto.

Non c’è tempo per troppe distrazioni, tutti i canali della televisione trasmettono in diretta da Pedrógão, praticamente 24 ore su 24, si cerca tutti insieme di esorcizzare. No, non è ancora l’ora della polemica. Sì certo qualche accenno, ma per il momento tutto si svolge sotto traccia. Nei prossimi giorni però sarà impossibile non interrogarsi, non dare una risposta ad almeno una domanda: la strada EN-236 doveva essere chiusa si o no? Ma ora è tutto il paese che si raccoglie in un lutto che sarà di tre giorni, perché il Portogallo è così, nei momenti difficili ci si unisce.