Chissà se la cerimonia degli Oscar vedrà (finalmente?) salire sul palco del Dolby Theatre, domani, Joaquin Phoenix, per ritirare la statuetta del migliore attore, un riconoscimento sfiorato all’ultima Mostra del cinema di Venezia, e poi svanito a sorpresa per noi e probabilmente anche per lui perché il nominatissimo Joker deve molto della sua scommessa – e della sua «seduzione» – alla presenza dell’attore nel ruolo del protagonista.

Nella categoria ci sono però nomi importanti, come Antonio Banderas – molto amato per la sua performance in Dolor y Gloria, autobiografia sentimentale del suo autore, Pedro Almodovar – o Adam Driver meraviglioso in Storia di un matrimonio di Noah Baumbach, tra i titoli top ten dell’anno – così come dovrebbe avere un Oscar per lo stesso film Scarlett Johansson, il duetto dell’amore sbriciolato tra i due è lancinante e ritmicamente perfetto.

PROPRIO PER QUESTO l’assenza di Baumbach nella categoria del miglior regista appare vistosa perché cosa altro è l’equilibrio di questo film tra scrittura e narrazione filmica se non la regia? Nessuno però nelle molte polemiche che stanno come sempre precedendo questa edizione degli Oscar sembra averci fatto troppo caso probabilmente perché discutere dei film, del loro «valore» non è prioritario, quando si parla di Academy funzionano meglio altre categorie di lettura.

Così se la sorpresa (anche se un po’ annunciata) è stata la nomination – oltre che nella categoria del miglior film internazionale – di Parasite come regia e film, lo «scandalo» è esploso con la mancata nomina di Greta Gerwig – in corsa in altre categorie – nella regia, e non tanto (o non solo almeno) per le qualità del suo Little woman ma perché senza di lei non vi figura alcuna donna. Come è possibile dopo il #MeToo e gli sforzi di mettere in discussione una realtà che ancora oggi, nel 2020, appare riguardo alla parità di gender estremamente discriminatoria? Rispetto ai due film, Baumbach dimostra un talento registico molto più raffinato di Gerwig – i due erano fantastici insieme ai tempi di Frances Ha – ma il punto non è questo.

La domanda che dobbiamo porci è invece: si può delegare alla sola Greta Gerwig la presenza femminile che sarebbe stata ugualmente irrisoria ma avrebbe tranquillizzato la «macchina» del #MeToo? Ovviamente la risposta è no. I problemi imposti all’attenzione dal #MeToo, parità di salari, eguaglianza di trattamento ecc. – in questi giorni tra l’altro è in corso il processo a Weinstein – sono stati nel tempo e mediaticamente troppo spesso offuscati da campagne contro questo o quell’altro (il caso Woody Allen per esempio) lasciando in secondo piano il fatto più importante, che questa assenza è cioè «sistemica. Perché ci sono pochi film diretti da registe? Perché l’industria non dà loro accesso, rende più difficile avere finanziamenti, non scommette sulle registe e però, visto che il #MeToo coincide col «politicamente corretto» – in una declinazione dal retrogusto sempre un po’ ipocrita – ci si rammarica dell’assenza di Gerwig o di quella di un film non memorabile, non meglio di altri cioè come The Farewell di Lulu Wang.

LO HA BEN spiegato in un’intervista al «Guardian» Rachel Morrison, l’unica direttrice della fotografia nominata all’Oscar in tutta la loro storia, nel 2018, per Mudbound di Dee Rees: «Non credo nel venire nominate perché siamo donne. In tanti si sono scandalizzati per l’esclusione di Greta Gerwig, ma forse il suo non è stato percepito come uno dei film più forti dell’anno. Il cambiamento deve cominciare dal basso verso l’alto: più registe donne. E ci devono venire dati gli stessi budget, lo stesso tempo, le stesse attrezzature: la maggior parte dei candidati a miglior film sono grandi produzioni, come 1917, C’era una volta a Hollywood e Joker».

La parità di gender è dunque fondamentale, e riguarda anche l’altra questione che sembra caratterizzare questi Oscar, la mancanza cioè di registi african american dopo la campagna #OscarSoWhite del 2016 che aveva fatto correre ai ripari l’edizione successiva. L’Oscar in questo contesto sarà sempre «So White» per le stesse ragioni che lo rendono «So Male», ovvero la disparità di gender che non regola solo la relazione donna/uomo ma determina la posizione di ogni componente sociale messa storicamente ai bordi. Anche per i registi african american ci sono disparità di accesso – quest’anno c’era un solo film «papabile», Us, troppo poco per costruire una «gara» equa – e qualsiasi cambiamento non può che partire da qui.

RISPETTO all’anno scorso invece è stata meno centrale nelle diffuse analisi pre-Oscar la «questione Netflix», nonostante la piattaforma streaming con le sue 24 nomination – fra cui due per miglior film: The Irishman e Storia di un matrimonio – sia lo studio con il maggior numero di candidature. Il dibattito in merito si è svolto tutto intorno al film di Scorsese, che ha più volte difeso la sua scelta di lavorare con Netflix per poter realizzare il film «come l’avevo immaginato».

Un segno questo – l’assenza di polemiche «plateali» – che la potente outsider avversata da Spielberg e boicottata da molte catene cinematografiche per le uscite limitate che concede ai propri film, è dopotutto stata accolta nel «gruppo». Lo dimostrava d’altronde la sua ammissione alla Motion Pictures Association of America, lo scorso gennaio, poco prima che gli Academy Awards premiassero con la statuetta alla miglior regia e al miglior film straniero uno dei suoi titoli: Roma di Alfonso Cuaron. E quest’anno Netflix potrebbe ambire appunto a miglior film, anche se viene dato per favorito 1917 di Sam Mendes.
Come l’anno scorso – quando l’impossibilità di trovare un conduttore per la serata aveva tenuto banco per mesi, ma poi aveva premiato in termini di ascolti – la novantaduesima edizione degli Oscar si svolgerà senza un presentatore.