Quel che è difficile da descrivere come si deve è la calma. O quel che come calma appare. Non è per disinteresse o freddezza che i newyorkesi hanno almeno cercato di cominciare la loro giornata di ieri in modo normale – portando a spasso i cani, correndo, andando a comprare il caffè o il giornale -: la città esiste e resiste in uno stato di trance surreale.

Certo, nonostante le poco rassicuranti rassicurazioni del presidente George W. Bush, non c’è niente di normale in questo day after. A partire dalla sagoma della grande nuvola di fumo chiaro, a contrasto con il cielo blu, che ha rimpiazzato la familiare vista della torri gemelle: i grattacieli più alti della città che, visibili da ovunque tu fossi, fino a l’altro ieri ti davano il senso dei quattro punti cardinali.

Gli aerei militari e le navi da guerra che arrivano nella baia della statua della libertà fanno solo da corollario a quell’immagine di assenza.

Già dalle prime ore che seguono gli attentati la parte meridionale della città inizia a svuotarsi. Fin dalla sera di martedì, il traffico newyorkese viene chiuso a sud della quattordicesima strada, con posti di blocco gradualmente più “selettivi” in corrispondenza di Houston, del Village e di Canal Street, la grande orizzontale che da Tribeca a Chinatown delimita il lato nord del quartiere finanziario.

All’imbrunire, mentre le sirene continuano a urlare e gli elicotteri rombare sopra l’isola raccolta in un vero e proprio stato d’assedio, di Manhattahn, “la città che non dorme mai”, rimane l’impressione di una metropoli fantasma.

foto Ap

 

Sfumato il primo shock, si inizia a chiamare gli amici che vivono a sud di Canal per vedere se stanno bene e se hanno bisogno di un posto per dormire. Chiusi la maggior parte dei ristoranti e dei negozi, i pochi posti dove si riusce a mangiare un boccone hanno menù ridotti. Mentre il sole tramonta sull’Hudson river centinaia di persone si raccolgono vicino all’acqua, sulla parkway chiusa al traffico, con gli sguardi fissi verso sud, dov’è appena collassato l’edificio di raccordo tra le towers. E ci si aspetta che presto collassi anche l’hotel Mariott.

La notte, a New York, è una veglia. Ma l’alba non è stanca. “L’Afghanistan è scomparso dalla mappa. Gli abbiamo fatto il culo a forza di bombe”, commenta sovreccitata una poliziotta afroamericana nel suo walkie talkie mentre controlla i documenti di quelli che cercavano di passare uno degli sbarramenti.

Un collega ripete una scritta graffiata nella cenere: “Bush attacca l’Afghanistan!”. Ma non si sente rabbia per le strade. Manhattan è un microcosmo liberal, pieno di stranieri, non Oklahoma City o Washington. E quando alcuni ragazzi si chiedono tra di loro se “li nuclearizzeremo o no”, lo fanno più con perplessa preoccupazione che con desiderio di vendetta.

Perché questa è anche una città orgogliosa del suo ruolo, della sua immagine nel mondo. E di saper comprendere in sé, come nessun’altra, gli estremi massimi della povertà e della ricchezza, della celebrazione e della tragedia; tutte le etnie e le religioni possibili.

Non è qui, insomma, che va spiegato che non tutti gli arabi si chiamano Osama Bin Laden. Persino Rudolph Giuliani – un sindaco noto per polarizzare le peggiori situazioni – ha assunto un atteggiamento di pacato pragmatismo: gli occhi più stanchi e l’espressione più triste ad ogni conferenza stampa. E quando esci per strada è più facile incontrare qualcuno che ti chiede dove andare a donare il sangue che qualcuno che abbia voglia di assecondare le facili retoriche delle Tv, o di parlare di Bush e Colin Powell. Difficile dire se un altro presidente avrebbe animato le reazioni di una retorica più tradizionalmente “americana”, come Clinton era riuscito a fare in occasione della bomba ad Oklahoma City.

E’ in questo deserto, nelle strade prive di veicoli, eccettuati quelli di soccorso, che, fin dal primissimo mattino, la gente sembra aver bisogno di cercare delle spiegazioni.

Uscendo verso le sette, sulla settima avenue semideserta, si intercettano drappelli di persone aggirarsi un po’ indecisi sulla loro direzione: quasi zombie, in una città di gente abituata a muoversi in fretta e sempre sicura di dove deve andare.

C’è un drappello stanco di chirurghi e infermieri del Saint Vincent Hospital (l’ospedale più assediato dai feriti perché uno dei più vicini alla zona del disastro). Molti passanti sono appesi al cellulare impegnati in conversazioni mentre, allo stesso tempo, cercano con gli occhi di comunicare con gli sconosciuti che passano loro a fianco. Ignoti dal destino comune. Perché in tanti, non solo homeless stavolta, l’altra notte hanno dormito in strada. Perché essere fuori è un modo come tanti per non sentirsi soli. E in una comunità in cui la solidarietà reciproca si riconosce in impercettibili gesti quotidiani, ieri mattina era chiara la necessità di connettere in modo più esplicito.

Emergendo un po’ scompigliata da dietro al bancone, la padrona del negozietto coreano che vende frutta e verdura – una sfinge che in genere a malapena sorride – spiega allora, tanto imbarazzata quanto gentile, che ha dovuto passare la notte lì perché non la facevano rientrare a casa. E ora, si consola, ha “proprio bisogno di una doccia”. Sono lei, il giornalaio arabo a cui non sono stati consegnati i quotidiani (New York senza il New York Times!), il macellaio e la pasticceria italiani gli unici negozi aperti nell’arco di tre isolati.

Mentre ripieghi verso casa, poi, ti senti urlare “Giulia!”. E’ la signora della lavanderia cinese, ed è la prima volta che pronuncia correttemente il tuo nome: “Che piacere vederti – ti dice – Temo che molti dei miei clienti lavorassero al World Trade Center. Ogni volta che ne scopro uno vivo è una gioia”.

foto Ap

Vicino alle barricate che progressivamente chiudono l’accesso al ground zero, la zona delle operazioni di soccorso, si raccolgono via via gruppi più folti. Una donna anziana arriva trascinando un carrello per la spesa pieno di roba da mangiare e la offre alla polizia: “State lavorando da 24 ore senza fermarvi”. Poco lontano una manciata di giovani muscolosi viene reclutata dall’altra parte della barriera per quella che potrebbe essere una qualche operazione di aiuto.

Passato quel secondo sbarramento, a sud di Houston, in una zona accessibile solo a residenti e stampa, il panorama diventa ancora più spettrale. Quello che sembra il tragico miagolio di un gatto – ma è più probabilmente un effetto del vento tra i rottami – ti segue per qualche chilometro lungo la strada deserta, fino a Canal Street, dove sta scorrendo una triste sfilata di buldozer gialli e di macchine di pompieri e polizia foderate di una grigia coltre di cenere. Chi le guida ha lo sguardo fisso e l’aria e stanca.

E ora, superata Canal – l’ultimo salvagente di strade che ti separa dalla zona dei soccorsi -, un’ovattata distesa coperta di polvere grigio perla e di un numero infiinito di brandelli di carta da ufficio zittisce lo sguardo.

Per scoprire ciò che sta oltre a quella distesa ci vorrà ancora molto.