L’autonomia differenziata arriva al «via». Oggi ne discuterà il pre-consiglio dei ministri. Giovedì approderà al cdm. A sentire Giorgia Meloni non si direbbe che i nodi siano stati davvero sciolti. La premier coglie infatti l’occasione offerta dalla presentazione del Progetto di Poste italiane «Polis» per lanciare un paio di messaggi taglienti. Sembra che parli ai sindaci perché i leghisti intendano: «Noi vogliamo unire l’Italia. Non ci rassegniamo all’idea che ci siano cittadini, servizi e territori di serie a o di serie b». Ribadisce poi che i suoi sono tempi lenti: «Non ci facciamo rincorrere dall’ansia da prestazione. Bisogna ragionare nel tempo». La Lega si affretta a far sapere, in via informale, di essere d’accordo: «Unire l’Italia è l’obiettivo a cui miriamo grazie all’efficienza dell’autonomia».

SEMBRA UNA COMMEDIA degli equivoci, invece è solo la via traversa scovata dalla premier e da Matteo Salvini per conciliare esigenze opposte. Il ministro, a differenza della presidente del consiglio, ha fretta e di ansia ne nutre parecchia. Deve ottenere un risultato visibile e rilevante da sbandierare in tempo per le elezioni regionali lombarde del 12 febbraio. Tanto l’esigenza è urgente che non ha esitato a mettersi personalmente in gioco, annunciando in tv il varo del ddl governativo per il 2 febbraio, anche se appena 24 ore prima le «fonti» di palazzo Chigi la avevano presa con molta più calma: «Intanto il preconsiglio, poi si vedrà».

È probabile che Giorgia Meloni, stavolta, non possa dirgli di no e debba rassegnarsi a un mezzo passo indietro, non senza porre alcune condizioni: la rinuncia a ricorrere al criterio della spesa storica in attesa che vengano definiti i Lep, i Livelli essenziali di prestazione, e la garanzia su un ruolo centrale del Parlamento, sia nella discussione del disegno di legge, che non dovrebbe quindi essere blindato, sia sui criteri a cui le Regioni dovranno rispondere per avviare il processo di attivazione dell’autonomia, sia, anzi soprattutto, sulle attribuzioni autonome, prima fra tutte l’istruzione. Modifiche che però dovrebbero essere introdotte in Parlamento, senza modificare la proposta Calderoli già in sede di consiglio dei ministri.

ANCHE A FIDARSI totalmente dell’onestà leghista, è poco per parlare di accordo. L’eliminazione del criterio della spesa storica evita un esito certamente penalizzante in massima misura per il sud, ma non garantisce affatto una tendenza opposta o sensibilmente diversa. Il capitolo centrale della creazione di un fondo di perequazione per garantire nei fatti e non solo nelle dichiarazioni «parità di diritti e servizi» per ora non è stato neppure preso in considerazione. Il «fabbisogno standard» che dovrebbe sostituire la spesa storica, sulla base dei Lep ancora tutti da definire, al momento è solo un titolo. Si parte, quindi, non perché ci siano davvero una mèta chiara e una rotta già definita ma solo perché la Lega ha bisogno di segnare un punto. Poi si vedrà.

Su questa base una maggioranza divisa al proprio interno e dunque nel complesso ben poco convinta si prepara a uno scontro con l’opposizione che promette di essere per la prima volta davvero duro. Il segretario della Cgil Maurizio Landini, ieri mattina, è stato definitivo: «È una strada totalmente sbagliata e spacca il Paese. Ci vuole un’autonomia che non divida tra ricchi e poveri ma garantisca maggiori investimenti dove ci sono minori infrastrutture». Giuseppe Conte, per i 5 Stelle, è altrettanto drastico: «Forse la premier non si è accorta che il suo governo sta già lavorando a un progetto per spaccare il Paese. Ma se Meloni ha davvero cambiato idea sulla scellerata idea di autonomia ne siamo contenti». Il Pd è più sfumato, in fondo il candidato in pole position per la segreteria, Stefano Bonaccini, era stato il primo a chiedere l’autonomia per la sua Emilia Romagna. Ma i tempi sono cambiati.

PIÙ CHE DELL’OSTILITÀ dell’opposizione, la premier si preoccupa di quella del suo stesso partito, che proviene da una cultura opposta, al punto che persino Gianfranco Fini è uscito dal mutismo che si è autoimposto per bombardare l’autonomia leghista, e ha le sue roccaforti elettorali nel centro e al sud. Dunque, una volta concessa a Matteo Salvini la sua bandiera elettorale, è probabile che Giorgia Meloni proceda poi senza fretta. Anzi, senza ansia da prestazione.