Il 19 febbraio 2020 un razzista ha ucciso nove persone nella città di Hanau in Germania. È passato un anno da quando Ferhat Unvar, Said Nesar Hashemi, Vili Viorel Păun, Mercedes Kierpacz, Sedat Gürbüz, Kaloyan Velkov, Fatih Saraçoğlu, Gökhan Gültekin e Hamza Kurtović furono strappati alla vita.

Oggi familiar*, sopravvissut* e attivist* ancora chiedono giustizia e conseguenze. Più il tempo passa, più ci rendiamo conto che per molti aspetti l’attacco avrebbe potuto essere evitato. Di recente, l’iniziativa “19. Februar” ha presentato in diretta un rapporto dettagliato sui fallimenti degli enti pubblici e della polizia prima, durante e dopo l’attentato.

Il rapporto, un risultato della ricerca e degli sforzi dei famigliar*, sopravvissut* e attivist*, precisa che l’attentato a Hanau non era un caso isolato. L’assassino agiva sulla base di una generale struttura razzista in Germania che non è mai stata smantellata:

Ricordiamo, ad esempio, l’Nsu, la cellula neonazista che tra il 2000 e il 2006 uccideva nove migranti curdi, turchi e greci in varie città tedesche. Anni dopo è emerso che membri della Verfassungsschutz (l’ufficio federale della protezione della costituzione) erano coinvolti.

Ricordiamo l’assassinio di Oury Jalloh, che fu trovato morto in prigione a Dessau nel 2005. Nel suo caso è venuto fuori da varie valutazioni e ricostruzioni che le testimonianze della polizia (secondo cui si sarebbe dato fuoco) sono errate e che Oury fu ucciso da un poliziotto. Ricordiamo Amad Ahmad, profugo curdo proveniente dalla Siria, in prigione da innocente a causa di un presunto “equivoco” dove morì per un incendio nel 2018.

Ricordiamo che negli ultimi tre anni, vari personaggi pubblici in Germania ricevevano minacce di morte con la firma “Nsu 2.0” e che i loro dati furono presi da computer di commissariati di polizia.

Oltretutto, non dobbiamo dimenticare che la storia nazista e colonialista di Germania non è mai stata completamente affrontata. È sulla base di tutto ciò che si deve contestualizzare il razzismo in Germania: si tratta di una persistente catena di violenza. Nonostante tutto ciò che è successo negli ultimi decenni, non sono stare prese delle misure per fermare seriamente le reti neonaziste.

Nel caso di Hanau, l’assassino possedeva delle armi legali, era noto alla polizia e regolarmente diffondeva online delle teorie di cospirazione e ideologie razziste, antisemite e misogine. Tuttavia, ha potuto uccidere nove persone senza impedimenti.

Nella notte del 19 febbraio, numerose persone chiamavano la polizia, senza esito. Vili Viorel Păun, una delle vittime, ha chiamato la polizia, ma non ha risposto nessuno. Alla fine, ha seguito l’assassino per fermarlo da solo. Vili è stato ucciso poco dopo e i suoi genitori non sono stati informati fino al giorno successivo.

Nell’“Arena Bar”, dove furono uccisi Said Nesar Hashemi e Hamza Kurtović, l’uscita di emergenza era stata bloccata da tempo, apparentemente su ordine della polizia per effettuare meglio delle retate. Il giorno dopo l’attacco, i familiari delle vittime sono stati tenuti all’oscuro per ore. Gli è stato negato di vedere i loro cari prima dell’autopsia, gli è stata negata una degna sepoltura secondo le rispettive pratiche culturali – questo, racconta Çetin Gültekin, fratello di Gökhan, è stato un altro trauma per le famiglie.

L’attacco è stato seguito da un anno di fallimenti istituzionali, finta preoccupazione e promesse vuote da parte di politici e del governo. Il processo per fare luce sull’attacco è stato portato avanti da sopravvissut*, attivist* e famigliar*, mentre il governo non forniva né sostegno né risorse.

Serpil Temiz Unvar, madre di Ferhat, ha fondato a suo nome un’iniziativa per l’istruzione antirazzista. Le varie iniziative che sono nate si devono mantenere attraverso donazioni. Nel mentre, la federazione sta pianificando di stanziare milioni di euro per la “Erasmus-Stiftung”, la fondazione razzista e revisionista dell’AfD (partito estrema destra).

Diventa evidente che dal governo non ci si possono aspettare soluzioni serie. La lotta antirazzista deve crescere dal basso. L’anno scorso, attivist* hanno lottato ogni giorno per mantenere vivo il ricordo delle vittime. Per la commemorazione annuale, migliaia di persone sono scese in piazza. Ma le stesse domande rimangono: Perché un neonazista possedeva delle armi? Perché la polizia non rispondeva? Perché era chiusa l’uscita di emergenza? Perché non furono adeguatamente informate le famiglie?

Le possiamo risolvere solo affrontando la realtà del razzismo sistematico. Commemorare significa lottare. E quello include continuamente esporre le reti razziste nella polizia e nel sistema. Lo dobbiamo a Ferhat, Said Nesar, Vili, Mercedes, Sedat, Kaloyan, Fatih, Gökhan, Hamza e tutte vittime del razzismo.