Duke Ellington, Mahalia Jackson, Fats Domino e la Preservation Hall Jazz Band. E ancora Roosevelt Sykes, la Eureka Brass Band, The Meters, Bo Dollis e molti altri artisti dell’epoca. Furono loro i protagonisti della prima edizione del New Orleans Jazz & Heritage Festival. Salirono sui palchi predisposti nell’auditorium municipale e in Beauregard Square, piazza oggi nota come Congo Square e integrata all’interno del Louis Armstrong Park, a ridosso del quartiere di Tremé. Iniziarono ad esibirsi il mercoledì 22 e andarono avanti fino alla domenica 26 dell’aprile 1970, dando il via ad un evento che col trascorrere degli anni sarebbe divenuto non solo un happening di intrattenimento, ma molto di più: un vero e proprio elemento identitario per l’intera città.
FORFAIT
Il Jazz Fest ha festeggiato in questo 2019 il raggiungimento della cinquantesima edizione con un cartellone artistico di livello davvero notevole, imperniato non più sulla consueta formula dei sette giorni spalmati su due fine settimana, ma con una ulteriore giornata supplementare, individuata quest’anno in giovedì 2 maggio e dedicata agli headliner Rolling Stones. Come oramai di pubblico dominio da diverso tempo, gli inglesi hanno dovuto cancellare una considerevole parte del loro tour, inclusa la data in Louisiana, a seguito delle condizioni di salute di Mick Jagger. In loro sostituzione la direzione artistica ha dapprima cooptato i Fleetwood Mac, anche loro poi rinunciatari per motivi analoghi, e successivamente i Widespread Panic. Oltre un florilegio di commenti sarcastici in rete e sui social sulla situazione fisica delle vecchie glorie del rock e pop interpellate, nonché le rimostranze di parte della comunità locale dei musicisti per non aver dirottato la scelta su band autoctone, l’extra day aggiunto non ha fatto altro che consolidare ulteriormente la presenza di pubblico. I dati forniti dall’organizzazione parlano di un totale di 475mila ingressi in otto giorni, il dato più alto raggiunto dal 2003. In tal senso hanno avuto un peso ragguardevole i tanti nomi blasonati presenti nel programma, i quali hanno più o meno soddisfatto le attese. Tra i mattatori va riservato indiscutibilmente un posto privilegiato alla Dave Matthews Band la quale ha incluso come ospiti sul palco anche elementi della attuale Preservation Hall Jazz Band e Warren Haynes dei Gov’t Mule, presenze che hanno dato ulteriore pregio all’eccellente esibizione della formazione della Virginia. Tanta qualità è arrivata anche dallo scanzonato Jimmy Buffet e la sua Coral Reefer Band, da una Alanis Morissette che nonostante la gravidanza avanzata non si è risparmiata dando vita ad uno show che pur muovendosi principalmente tra le sue hit è stato comunque effervescente, e da i granitici Los Lobos in versione acustica. Discorso a parte meritano altri nomi altisonanti: hanno parzialmente deluso, soprattutto per un ardore che non è più quello di una volta, Van Morrison, Earth Wind & Fire, Gladis Knight e Chaka Khan. Si sono difesi egregiamente l’inossidabile John Fogerty e il sempre ipnotico Al Green, mentre sorprendente è stata Diana Ross, la quale con un carisma di rara forza ha fatto cantare a squarciagola le migliaia di persone accorse per lei: supportata da una band notevole la stella di Detroit ha inanellato tutti i classici per cui è nota e va detto che nonostante la giovinezza sia fuggita via da tempo e la voce in parte anche, non ce ne è per niente e per nessuno quando intona You Can’t Hurry Love e Upside Down.
LIVELLO SUPERIORE
A far brillare l’aurea del sempiterno Santana è stata invece la jam session con Trombone Shorty: la presenza di Mr. Andrews ha pungolato oltremodo il chitarrista, autore fino a quel momento di una buona prestazione ma priva di vivacità. Assieme i due hanno dato vita a uno spettacolo di livello superiore, difficilmente dimenticabile. E se le stelle di ieri non son rimaste a guardare, ancor più luminescenti sono state quelle di oggi e di domani. La biondissima Katy Perry, vestita con una aderente tuta in latex nero su cui erano impressi i tasti di un pianoforte, si è confermata una vera icona pop, dimostrando che mai come quest’anno il Jazz Fest è stato capace di mettere in vetrina il futuro più brillante. Da Aloe Blacc a Gary Clark Jr, da Leon Bridges ad Amanda Shaw, da Tank and The Bangas a Jon Batiste, dai The Revivalists al già citato Trombone Shorty, non è mancato pressoché nulla della gioventù migliore. Ognuno a suo modo, ma tutti con classe, esperienza, energia ed estro, hanno lasciato il segno dimostrando che quanto di loro è conosciuto su disco è solo una parte dell’enorme talento che posseggono. Proprio Batiste, pur non presente nella line-up, ne è stato la dimostrazione: sono bastati pochi minuti come guest nello spettacolo di Bridges a lasciare il segno. Un altro figlio del Deep South statunitense e nello specifico di Nola, esattamente come Shaw, Shorty, Bangas e i Revivalists, capace di emergere con stile e talento. E il punto è proprio nel luogo d’origine: New Orleans.
RINASCITA
La città è profondamente, indissolubilmente legata al suo Jazz Fest. Una ridda di emozioni allaccia in modo tentacolare la kermesse alla Crescent City: dall’idea di inizio Settanta di George Wein, il «most famous jazz impresario» che dopo aver fondato il Newport Jazz Festival replicò la stessa formula a New Orleans, fino ad oggi sono successe davvero tante cose. Il Jazz Fest è stato ed è ancora una nitida fotografia di Nola. Ne assorbe le pulsioni e il carattere, nel bene e nel male. Quando l’importanza della black consciousness era un bisogno e una esigenza espressiva, ve ne erano ampie tracce nei concerti che si svolgevano nell’ippodromo cittadino, il Fair Grounds, luogo dove ancora oggi la rassegna va in scena. Post Katrina il primo vero tentativo di rinascita sociale e commerciale nei grandi numeri, fu proprio il Jazz Fest del 2006 (di cui parlammo nell’«Alias» del 15 luglio dello stesso anno, ndr). Il tentativo di risorgere degli ultimi quattordici anni, con tutte le difficoltà del caso e i dazi da pagare, lo si ravvisa appieno nel festival. La freddezza dei numeri è sconcertante e chiara al contempo: il biglietto d’ingresso per singola giornata è progressivamente aumentato: venti dollari nel 2000, trentacinque nel 2005, quaranta nel 2006, sessanta nel 2010 e così via, fino ad arrivare agli ottantacinque di oggi. Far divenire ancor più di prima il festival un’opportunità di lavoro dopo quei drammatici giorni di fine agosto 2005 attraendo turisti appassionati di musica, è stata una sacrosanta esigenza.
Ecco quindi che camminare lungo Gentilly Blvd assieme a migliaia di persone in direzione del Jazz Fest, è molto più che andare a godere di una media di settantacinque concerti giornalieri spalmati su dodici palchi: significa entrare a New Orleans attraverso una strada sicuramente ben curata, ma troppo tortuosa per allargare lo sguardo lunga l’intera linea dell’orizzonte. Possono sfuggire i particolari, ma una visione d’insieme la si ha. Il pubblico è composto per la maggior parte da bianchi che giungono appositamente. Esattamente come già scritto nel 2006, è nei lavori di servizio e sul palco che la percentuale si ribalta, dove diventa prevalente la popolazione african-american autoctona. I prezzi di cibo, bevande e ammennicoli turistici non sono affatto economici. E se il festival è un’istantanea di Nola, la domanda è immediata: come sta New Orleans?
IN APPARENZA
In apparenza bene: nel dopo Katrina la quantità di denaro in circolazione è progressivamente aumentata e la possibilità di trovare un’occupazione per sopravvivere, oggi non è più così peregrina. Ma basta scavare un poco più a fondo per rendersi conto che qualcosa non va. E può sembrare assurdo, ma buona parte dei problemi attuali ha in realtà maledettamente origine nei giorni in cui gli argini cedettero. Nella New Orleans odierna la principale preoccupazione di cui si discute è la progressiva gentrificazione in corso: è argomento diffuso la perdita dell’identità di quartieri storici come French Quarter, Tremé, Marigny, Bywater, 7th & 9th Ward, Freret e più in generale l’area dell’Historical District. Dibattito corretto, ma che per essere compreso a fondo deve essere arricchito da informazioni imprescindibili che riguardano in buona parte le aree urbane sopra citate: le vittime accertate di Katrina furono circa duemila, molte delle persone che fuggirono non ebbero la forza economica per tornare a vivere nei propri luoghi, centinaia di abitazioni rimasero disabitate a lungo andando incontro a una rapida fatiscenza, i tassi di suicidio aumentarono drasticamente e come se non bastasse, nelle settimane successive vennero licenziati in tronco circa settemila tra insegnanti e impiegati a vari livelli nelle scuole pubbliche dell’area metropolitana. La giustificazione di rito fu quella dell’assenza di denaro per pagare i salariati in questione a seguito del disastro naturale, ma in realtà con la scusa della catastrofe andò in applicazione un modello scolastico denominato «charter school», ovverosia la gestione autonoma come in una scuola privata, ma sovvenzionata da denaro pubblico. Questa vicenda ha visto anche una class action con relativo strascico giudiziario terminato nel 2014. Le charter school, ideate negli anni Settanta dal filosofo Ray Budde, sono da tempo lungamente criticate oltre che per le storture delle gestione di stampo privato, in particolar modo per l’interezza del sistema basato sulla regola «no excuses», un codice rigido e incentrato su una ferrea disciplina che favorisce la stereotipia coercitiva dei comportamenti degli alunni, a scapito della creatività. Solo sommando tali considerazioni si comprende come le aree urbane menzionate, dove storicamente la presenza della classe lavoratrice nera era preponderante, abbiano subito un veloce e aggressivo depauperamento sia numerico che identitario, inasprito ulteriormente tra il 2010 e il 2013 da due importanti condizionamenti: il trasferimento progressivo di giovani bianchi benestanti provenienti per lo più dal Midwest (ma non solo) negli spazi abitativi lasciati giocoforza liberi dagli african-american; l’affermazione prepotente dei noleggi abitativi a breve termine marchiati Airbnb. Va detto che in un mercato edilizio e abitativo non opportunamente regolamentato, ben si comprende perché i black new orleanians ancora residenti dopo Katrina, furono costretti ad andar via quando nell’arco cronologico indicato i prezzi degli affitti lievitarono oltremodo aprendo le porte al gigante dei noleggi temporanei, e perché al contempo molti proprietari di casa decisero di vendere per trasferirsi verso la cinta periferica di Nola.
TRA I QUARTIERI BENE
Vale la pena, una volta essersi lasciati alle spalle l’ennesima giornata del Jazz Fest, spendere il proprio tempo con lentezza, camminando lungo le strade di New Orleans. Solo così, con l’animo del viaggiatore e non del turista si può almeno parzialmente comprendere come la gentrificazione sia contemporanea e palese. Poco o nulla nei quartieri bene: Uptown, il Garden District, Metairie, mantengono il loro stile di sempre, puliti e lucenti e animati da una popolazione in buona parte bianca e dall’ottimo reddito. Un altro parametro che ne indica l’elevata qualità di vita è dato dalla collocatazione in queste zone delle scuole migliori, quelle che ottengono il rating più alto. Si sente, eccome, la differenza dalle parti dell’Historical District: in particolare a Tremé, mai come ora abitata da giovani bohemien bianchi che trascorrono parte del loro tempo in caffè alla moda dove è mainstream mangiare vegano. Nulla a che dire contro le abitudini alimentari, ma certo si nota la differenza della composizione sociale in quello che è stato uno dei quartieri più antichi e importanti dell’intera comunità nera statunitense. Le abitudini di ieri sono mutate: se una volta era automatico ricevere e dare un saluto ad un estraneo incontrato in strada, ora accade molto meno. E se prima il quartiere intero era una casa, ora si è trasformato in case che compongono un quartiere.
DIBATTITO APERTO
Il dibattito sulla gentrificazione è aumentato negli ultimi anni, con un progressivo aumento delle parti sociali coinvolte, in particolar modo la cittadinanza dell’Historical District, ma non solo. Di gentrificazione se ne parla nei luoghi d’aggregazione, nei quartieri come Bywater che ancora mantengono parzialmente un’identità e non vogliono perderla, alla WWNO emanazione locale della National Public Radio e financo nel City Council della città. È notizia datata 16 maggio l’approvazione di un nuovo e più stringente regolamento per il noleggio abitativo a breve termine, il cosidetto «short term rental program», dove si rintracciano delle misure di protezione per il patrimonio culturale collettivo di Nola, ma che a giudizio di diverse associazioni, ancora non è abbastanza incisivo. Certo, a New Orleans si è sempre affittato case ai turisti, ma la forza di Airbnb, capace di superare e inglobare altre aziende del genere come HomeAway e VRBO, è stata soverchiante.
SOLUZIONI
È arduo trovare una soluzione e, probabilmente non ve ne è una sufficiente per tutto, che riesca a bilanciare l’esigenza di non disperdere l’anima della città e al contempo di proiettare la stessa nel futuro. Ma una certezza c’è: New Orleans è un luogo non ordinario, sicuramente assai poco statunitense e molto più americano. Lo racconta la sua storia sociale e la sua architettura, le sue abitudini alimentari e la sua dedizione e rispetto dell’arte che ha la stessa valenza del lavoro, perché tale è. Tutto questo è una meravigliosa e, forse, infinita risorsa che le permette di vivere nonostante la cittadinanza intera sia consapevole che da un momento all’altro, l’ennesimo cataclisma naturale può ingoiare tutto. Ha ragione la ragazza dominicana, di giorno studentessa alla Tulane University e la sera autista per Uber, quando esclama con un sorriso beffardo che «Baby, if New York is an apple, New Orleans is a pineapple», «Se New York è una mela, New Orleans è un ananas». È interessante ascoltare Greg Lambousy, direttore dello splendido New Orleans Jazz Museum collocato nel cuore pulsante della città, all’intersezione tra il fiume Mississippi, il French Quarter e Frenchmen Street, quando afferma che: «Uno dei momenti più belli del mio lavoro è stato lo scorso dicembre, quando in occasione di una raccolta fondi per il museo, abbiamo organizzato un concerto dove nomi affermati come Trombone Shorty, Jon Batiste e Wendell Brunious si sono esibiti assieme a una band composta da studenti del NOCCA (New Orleans Center for Creative Arts). È stato davvero simbolico per il nostro lavoro e per la cultura musicale da cui tutti proveniamo: vederli sul palco assieme ha significato al contempo preservare e innovare». L’impianto museale, attivissimo non solo in occasione dell’International Jazz Day dello scorso 30 aprile e durante l’arco temporale del Jazz Fest, è un importante crocevia oltre che per mostre e allestimenti di routine, anche per i ripetuti Camp dedicati a studentesse e studenti di musica organizzati lungo l’intera stagione.
FIDUCIA NEL FUTURO
E forse, la straordinarietà di New Orleans è insita nella indistruttibile fiducia nel futuro che la pervade. E può che succedere che mentre si cammini in Bywater, a supporto di tale ragionamento, arrivi la targa commemorativa che la William Frantz Elementary School ha posto nei suoi spazi compresi tra Pauline Street e N. Galvez Street. Piazzata lì per ricordare Ruby Bridges, bambina afroamericana che per prima entrò in una scuola fino a quel momento destinata esclusivamente ad alunni bianchi. «Honoring the Power of Children» è la frase che identifica quel cimelio del Civil Right Movement. Forse retorica, ma sicuramente vera, come la natura culturale di una città che ha nella musica la sua essenza più profonda e viscerale. Continua quindi avere un senso entrare al Jazz Fest, oltre che per i nomi di grande abbrivio, soprattutto per tutte le band che innervano i suoni delle culture nero e afroamericane. Entusiasmandosi per il blues di Buddy Guy, The War and The Treaty, Cedric Burnside, Deacon John e Little Freddie King. Per il funk dei Naughty Professor, Flow Tribe e Shamarr Allen, per i suoni di strada di Meschiya Lake, per il gospel di Irma Thomas, per la instancabile e tribale ritmicità dei Mardi Gras Indians nelle loro variopinte e colorate tribù. Batte il cuore a tempo per le innumerevoli brass band dalla Rebirth a tutte le altre, per il jazz tradizionale di Leroy Jones, Dr. Michael White e Don Vappie e ancora per il cajun e lo zydeco di Terrance Simien, Sun Pie e C.J. Chenier. Ma soprattutto per quello che non ti aspetti, che porta il nome di Original Pinettes Brass Band, un combo di adolescenti e giovani donne african-american capaci di fare la differenza. E quando la trombettista stacca un assolo di una bellezza e potenza così devastante che sembra l’unico suono ascoltabile al mondo in quel momento, ogni altra cosa appare superflua. Le acque di Katrina si fanno lontane, i problemi non appaiono più insormontabili e si è certi che l’anima di New Orleans sicuramente non si disperderà.