Iniziative in memoria di Enrico Berlinguer si vanno moltiplicando in questo anniversario della sua scomparsa. Anche da parte del Pd, quasi si fosse reso conto d’improvviso che quel segretario del Pci è tutt’ora figura molto popolare. Persino i suoi occhiali come immagine che illustra la tessera per l’anno prossimo. Sebbene capisca e condivida la commozione con cui vengono accolte, queste commemorazioni non mi piacciono.

Peggio: penso siano un’operazione censoria, che cancella una parte assai significativa della vicenda politica della sinistra italiana, quella che è stata chiamata «la seconda svolta di Salerno», di cui i più giovani sanno pochissimo ma che dovrebbe però esser ben ricordata dalle generazioni che a quel tempo erano già mature. Credo sia un peccato, perché una riflessione generale su quel passaggio, sarebbe utile a tutti.

La data di quella svolta politica di Berlinguer è infatti quella in cui si aprì nel Pci il confronto più aspro, ben più profondo di quello che lungo tutti gli anni Sessanta oppose gli «ingraiani» alla linea ufficiale del Partito, e, soprattutto, ben più gravido di conseguenze perché produsse una assai severa divaricazione all’interno stesso della maggioranza che l’aveva unitariamente governato sin dalla scomparsa di Togliatti. A produrla fu un sofferto ripensamento di Berlinguer sulla linea da lui avviata del «compromesso storico». Anche la seconda «svolta», dopo quella di Togliatti appena rientrato nel 1944 dall’esilio sovietico, ha legato il suo nome alla città di Salerno, ma per un evento del tutto imprevisto e casuale: il terremoto del novembre del 1980 in Irpinia. Una scossa fortissima che devastò una amplissima area del paese e che portò alla ribalta il livello di corruzione e di degenerazione che aveva ormai finito per caratterizzare il “regime” democristiano. Un altro terremoto, questa volta politico. Che come prima conseguenza aveva quella di rendere non più proponibile l’ipotesi di un compromesso con la Democrazia cristiana quale erano stati i governi di unità nazionale. Non si trattò di uno sfogo improvviso, ma del prodotto di fatti che rendevano ormai impossibile proseguire su quella linea. E infatti a questa conclusione Berlinguer era giunto già prima, innanzitutto per via delle elezioni del 1979, quando il Pci aveva subito una perdita di voti non grande ma significativa, perché il calo, rispetto al grande balzo in avanti del 1976, si era verificato in particolare nelle aree operaie e fra i giovani, indicando un indebolimento della identità di classe del partito.

In quegli anni stava diventando evidente un processo nuovo e ben più preoccupante di cui Berlinguer si era reso conto: la fine del ciclo espansivo del capitalismo e dunque il venir meno dei margini che avevano reso possibile il compromesso sociale del primo dopoguerra. Un dato che la crisi petrolifera del 1970 aveva reso chiaro e che infatti segnò l’inizio della pesante controffensiva avviata da Thatcher e Reagan, un vero cambio d’epoca che oggi risulta anche più evidente e che tutt’ora tuttavia il Pd sembra sottovalutare (fu proprio il manifesto che produsse un lungo e importantissimo dibattito cui parteciparono i più celebri economisti dell’epoca, una serie di articoli a partire da uno introduttivo di Lucio Magri, poi raccolti in un volume curato da Valentino Parlato, Spazio e ruolo del riformismo).

Berlinguer aveva già reagito con una fermezza ben lungi dall’esser condivisa da tutto il gruppo dirigente del Pci. Innanzitutto con la solidarietà espressa agli operai della Fiat colpiti prima dal licenziamento di ben 13mila di loro e subito dopo dall’accettazione del peggior compromesso mai avallato dalla Fiom, cassa integrazione per 23mila dipendenti.

La convocazione straordinaria della direzione del partito a Salerno, epicentro delle iniziative in favore della popolazione colpita dalla scossa, fu certamente pensata per dare il giusto rilievo al mutamento di linea politica che Berlinguer aveva deciso: la proposta di una linea di alternativa, o quanto meno di una eventuale convergenza con la Dc ma in una compagine che riconosceva la centralità del Pci. A sottolineare il senso della «svolta» vennero subito dopo una serie di interviste, e di scelte di Berlinguer che ne approfondirono il significato. Riporto, per la sua chiarezza, una sua frase: «I partiti hanno degenerato, sono solo macchine di potere e di clientela, scarsa o mistificante conoscenza della vita e dei problemi della gente, ideali e programmi pochi e vaghi, sentimenti e passione civile zero. Gestiscono interessi spesso contraddittori, talvolta loschi, comunque senza rapporto con i bisogni emergenti. Senza smantellare tale macchina politica ogni risanamento economico, ogni riforma sociale, ogni avanzamento morale e culturale è precluso in partenza».

Una cruda denuncia della crisi della democrazia nel nostro paese che fu invece interpretata come si ricorderà come «moralismo». Così come la sua condanna del consumismo, evidente accenno alla catastrofe ecologica che si stava cominciando a delineare, fu bollata come funesto giudizio di un vecchio bacchettone.

Aggiungo, soprattutto per i più giovani che non ne hanno memoria, che lo strappo con Mosca, maturo già al tempo dell’intervento sovietico a Praga nel 1968, venne attuato da Berlinguer con modalità inconsuete: un’esplosiva dichiarazione alla Tv in cui egli dice che «la spinta propulsiva» della Rivoluzione d’ottobre, «il più grande evento rivoluzionario della nostra epoca, si è esaurita». Non dunque che sarebbe stato meglio non ci fosse stata, come è poi stata la vulgata nelle successive reincarnazioni del Pci. Quel riconoscimento, che prelude al crollo del Muro avvenuto quando lui era già scomparso, per Berlinguer avrebbe dovuto evitare che si aprisse una deriva, poi purtroppo invece verificatasi, di «nuovismo liquidazionista». L’indicazione di Berlinguer era assai diversa, quella che poi fu chiamata «Terza via» (naturalmente non aveva nulla a che vedere con quella che poi fu incarnata da Blair), ma era in linea con il movimento pacifista che proprio negli anni Ottanta arrivò al massimo della sua forza indicando l’obbiettivo del disarmo e dell’autonomia dell’Europa.

Decisivo fu per tutti noi – Pdup e Fgci che si era spostata a sinistra – il telegramma di solidarietà che Berlinguer ci mandò in occasione delle botte che prendemmo al primo blocco della base di Comiso. Da quel momento tutta la Sicilia, guidata da Pio La Torre, appoggiò con grande forza i pacifisti italiani ed europei che giunsero per anni nell’isola impugnando lo slogan: «Per un’Europa senza missili dall’Atlantico agli Urali». Quel movimento aiutò non poco la firma dell’accordo cui si giunse nel 1985 ad Helsinki sul disarmo. Cui mancò, ovviamente, la firma degli Stati uniti.

Fu questo tentativo di Berlinguer di conservare, nel nuovo contesto internazionale prodotto dalla scomparsa dell’Urss, una forza in grado di contrastare l’allineamento dell’Italia ad una perdente modernizzazione, sbandierata da Craxi, che indusse il Pdup ad accettare nel 1983 l’accordo elettorale. I suoi candidati furono inseriti (con successo) nelle liste del Pci non come indipendenti ma con la sigla del proprio partito. Accogliemmo poi l’invito che Berlinguer venne personalmente a proporci al nostro congresso del 1984 di rientrare nel Partito. Ai massimi livelli.

Poiché come sapete nel Pdup era restata la maggioranza dei compagni dell’area manifesto, nonostante l’incrinatura intervenuta nel 1978 fra organizzazione territoriale e redazione del quotidiano, mi è parso giusto ricordare su queste pagine che sia io sia una grande quantità di compagni riconoscono come politicamente (anche se non più giuridicamente) nostra l’intelligenza e la lungimiranza del compagno Enrico Berlinguer.