Era il 2010 quando le Giornate degli Autori presentarono La vida de los peces di Matias Bize, giovane regista cileno che si era già fatto notare a Locarno. Un paio d’anni fa, in occasione del decennale delle Giornate il suo film venne votato dal pubblico come il più significativo del decennio. Quasi inevitabile quindi che Bize tornasse nella sezione parallela con il suo La memoria del agua. Abbandonata l’unità di tempo che aveva caratterizzato i film precedenti, questa volta l’attenzione è tutta sui due protagonisti, spesso in primo piano. Sono Javier e Amanda, una giovane coppia sposata ma devastata dalla morte del figlioletto di 4 anni, annegato nella piscina di casa.

 

 

Non c’è colpa, di nessuno, ma l’angoscia, il rimpianto e la rabbia sono insostenibili, per Amanda addirittura sono tutti colpevoli: se fossero andati al mare quella settimana, se non avesse risposto al telefono distraendosi… Così, mentre Javier ha bisogno di Amanda per poter sopportare quel peso, lei non riesce più nemmeno a guardarlo in faccia. Si separano, lui vorrebbe che fosse una questione momentanea, lei non sa. Bize non risparmia tristezze e emozioni, ha però il pregio di non mostrare mai la morte del piccolo Pedro, anzi, si spinge oltre nel non mostrare alcuna immagine che lo rappresenti. Vediamo di scorcio la piscina, qualche giocattolo da gettare, una foto con i compagni dell’asilo ma i volti non si distinguono.

 

 

Il film inciampa solo in un paio di momenti melodrammatici quando lui deve comprare un regalo per la figlia di amici, coetanea di Pedro, e quando lei, traduttrice simultanea, a un congresso medico deve traslare quel che succede fisiologicamente in caso di annegamento. Altrimenti sono i liquidi a ricoprire un ruolo di portatori di emozioni. L’acqua in primis, della piscina, del mare, del lago, ma anche il latte di soia, le lacrime che scorrono copiose sul volto di Amanda e stentano invece a sgorgare su quello di Javier («dovresti piangere» lo esorta lei), e la neve che sembra voler dire qualcosa alla triste coppia. Il dolore scava, inesorabile, Bize lavora di dialoghi e di interpretazione. Lei è Elena Anaja, attrice spagnola chiamata a un ruolo davvero impegnativo, scomodo e quasi antipatico nel suo volere chiudere con lo smarrito Javier che perde l’unico appoggio possibile. Poi c’è lui, Benjamin Vicuña, cileno, ma ma conosciuto anche in Argentina e in Spagna per il suo talento che ha spaziato in cinema, teatro e televisione. Suo è il compito più aspro, sia come interprete, perché non deve andare sopra le righe, ma soprattutto perché per lui l’emozione deve essere stata terribile dato che ha davvero vissuto una tragedia analoga.