Nell’antica Grecia, a Sparta, gli iloti erano servi. Non godevano neppure dello statuto di schiavi – beni commerciabili – ma lavoravano la terra o andavano in guerra come proprietà dello stato. Poiché il loro numero superava abbondantemente quello dei cittadini, gli spartani temevano che potessero sollevarsi e dunque li tenevano costantemente sotto sorveglianza.

TUCIDIDE RIFERISCE che durante la guerra del Peloponneso, di cui Atene e Sparta furono i principali contendenti, agli iloti fu tesa una trappola: gli spartani fecero sapere che chi si fosse battuto valorosamente contro il nemico sarebbe stato liberato. Ritenevano che coloro che avessero dimostrato orgoglio sufficiente da anelare alla libertà sarebbero stati gli stessi a ribellarsi prima di chiunque altro. Dunque ne scelsero duemila, li incoronarono e fecero far loro il giro dei santuari come schiavi liberati. Tuttavia, «poco dopo – racconta Tucidide – sarebbero stati fatti sparire e nessuno seppe mai in che modo ciascuno di loro fosse stato eliminato».
Commentando quest’episodio, il grande storico Pierre Vidal-Naquet afferma che «gli iloti scompaiono, sono eliminati, ma le parole che definiscono il massacro, la morte, non vengono mai pronunciate e l’arma del delitto resta sconosciuta».

Duemila cinquecento anni fa, nel periodo di maggior splendore della Grecia classica, Tucidide ci mostra una specie capace di immaginare e mettere in atto un meccanismo come quello della sparizione. Bisognerà aspettare il nazismo perché l’esercizio del massacro, che l’umanità si ostina a praticare sin da quando esiste, venga messo a punto su scala industriale. Ma saranno le dittature latinoamericane a rispecchiare fedelmente la tragedia degli iloti di Sparta, ossia quando saranno molte le persone scomparse senza che mai si sia saputo con certezza in che modo ognuna di loro fosse stata eliminata.

LA SPARIZIONE non lascia tracce, non lascia corpi. E se le vittime della Shoah trovavano, secondo Celan, un sepolcro nel vento, le vittime dell’improvvisazione latinoamericana neppure in cielo hanno trovato pace. Dal cielo le lanciavano, solo leggermente sedate, durante i voli della morte. Quel che avevano fatto i nazisti annientando l’identità delle vittime, riducendole a numeri, in America Latina diventa caricatura, dettata dall’ansia di emulazione di dittatori da strapazzo desiderosi di dimostrare ai propri maestri di essere meglio di loro: «qui non ci servono nemmeno i numeri – sembravano voler dire con spavalderia – spariscono e basta».

Con l’annientamento del nome, i pochi corpi disponibili per la veglia funebre, per il tributo del rito necessario della dipartita, venivano ritrovati muniti unicamente della sigla NN, nec nomine. I congiunti dovevano immaginare i corpi dei loro morti, sotterrarli nel teatro della mente, poiché non c’erano neppure i luoghi. E i luoghi contano, che siano la modesta dimensione della tomba o del memoriale o le coordinate geografiche che determinano la gamma di differenze che caratterizza l’umanità e i suoi modi di contrastare la perdita.
La sparizione rende impossibile il lutto, la necessaria tristezza diventa malinconia e si finisce preda del passato, del suo ricordo impossibile ma anche della minaccia della sua ripetizione, non è più possibile immaginare il futuro. Come ha scritto Sebald: c’è un momento in cui, causa una catastrofe collettiva, la Storia minaccia di tornare a essere storia naturale.

PERCHÉ GLI PSICOANALISTI dovrebbero interessarsi a queste cose? potrebbe domandarsi un profano. Perché, essendo casi estremi, sia i desaparecidos sia le vittime dell’universo nazista della concentrazione gettano luce su una zona, fra la vita e la morte, dove i vivi non riescono a vivere né riescono, i morti, a morire del tutto. E in quella zona, abitata da creature più numerose di quanto possiamo immaginare, insieme a esseri onnipresenti nella nostra cultura quali zombi e vampiri, vagano anche migranti divenuti paria senza patria, malati sfrattati dalle proprie case, persone incapaci di cicatrizzare la ferita provocata dalla perdita di un proprio caro. Ed è una zona che la contemporaneità ha reso visibile come non mai prima.

LA NOSTRA CULTURA, almeno quella occidentale, accompagnata da una benaccetta secolarizzazione, si vanta della liquefazione dei rituali inventati dall’umanità per attutire la perdita, meccanismi collettivi che definiscono frontiere porose e amichevoli fra il mondo dei vivi e quello dei morti.
Il mondo sperimenta una vertiginosa mutazione i cui effetti sono percepiti a diversi livelli. Lo studio dello psicoanalista – in fin dei conti isola anacronistica e controcorrente rispetto al progresso e al capitalismo imperante – è un osservatorio privilegiato per rilevare, studiare e possibilmente alleviare le conseguenze cliniche della decadenza del simbolico impadronitasi del pianeta.
Oggi affrontiamo l’orrore come non mai prima, perché lo facciamo dalla prospettiva della civiltà. Ognuno di noi è nella posizione dell’angelo di Walter Benjamin, che avanza verso il futuro di spalle, guardando spaventato al passato come a un cumulo di rovine.

Improvvisamente ci ritroviamo a guardare con orrore la brutalità delle cose – come ben dice Lorena Preta – la testa di Medusa prossima all’insopportabile esperienza che gli psicoanalisti concettualizzano come Castrazione e che oggi indossa nuove maschere: l’ascesa dei populismi autoritari, la guerra e la segregazione, la peste o la minaccia climatica e nucleare.

FORSE NELL’ANTICHITÀ gli orrori erano più grandi, però esistevano i rituali per metabolizzarli. E contavamo sul fatto che si sarebbero attenutati grazie alla civilizzazione. Oggi sappiamo che la civiltà è a mala pena il contrario della barbarie, ed è sufficiente grattare un poco la superficie perché questa torni a emergere. E la barbarie è ovunque.
L’esercizio contemporaneo della psicoanalisi è impensabile se crediamo che non esista niente di tutto ciò.
Perché il mestiere dello psicoanalista non più si configura alla maniera di quell’archeologo dell’inconscio cui Freud lo accomunava, o all’immagine del detective della mente. L’analista è oggi una sorta di medium che officia in veste di guida in quella zona grigia, dolorosa, tragica, atemporale, stemperando la sofferenza che vi si annida.
E s’identifica piuttosto con la figura dell’antropologo forense, un mestiere inventato dalla nostra contemporaneità, prodiga di massacri. Il suo lavoro, di ricomporre puzzle ma anche di nominare le lacerazioni e i vuoti della trama simbolica, restituisce nome alle cose affinché, con un po’ di fortuna, divengano meno brutali.

FORSE PER QUESTO vale la pena che psicoanalisti, scienziati, intellettuali di geografie lontane come Iran o India, Usa, America Latina e Italia s’incontrino per parlare di quella zona di frontiera fra la vita e la morte.
Quella zona a tratti – come nel film di Tarkovski – sembra una scena post-apocalittica che ci coinvolge tutti non solo come testimoni atterriti dell’orrore, ma anche come soggetti desideranti e critici.
Da un’altra zona di frontiera, dove l’indisciplina conta più della disciplina puntuale, dove il dialogo fra saperi diventa indispensabile, forse noi psicanalisti abbiamo qualcosa da dire.
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(traduzione di Francesca Santarelli)

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SCHEDA

Il programma delle due giornate

Il testo anticipa la relazione dello psicoanalista argentino (vive a Cordoba) al convegno «Still Life. Ai confini tra il vivere e il morire» (sabato 26 e domenica 27), presso la sede Spi, Società psicoanalitica italiana (via Panama 48) che ne cura anche il programma. Fra gli ospiti, Sudhir Kakar , «Passando da un seno all’altro. Morte e morire nell’immaginazione indiana e la poesia di Tagore»; Gohar Homayounpour, «Morte e decadenza. Il crollo del Metropolitan Building a Abadan»; Andrea Baldassarro, «Vita morte. Al di là del principio di piacere»; Chair Cosimo Schinaia, Brian Greene, «Fino alla fine del tempo», Rosa Spagnolo, «Still life: durata, persistenza, esistenza. Ipotesi neuro-psicoanalitiche», Silvia Ronchey, «L’ultima immagine». Domenica: Chair Alfredo Lombardozzi, Mariano Horenstein, «Il velo strappato»; Daniela Scotto di Fasano e Marco Francesconi, «Angoscia di morte o morte dell’angoscia?», Nadia Fusini, «Un inciampo per lo sguardo».