Nei giorni in cui l’epidemia di coronavirus cominciava a insinuarsi dentro New York City – marzo 2020 – per poi galoppare e mietere morti, desertificare le strade della metropoli, arrestarne il cuore finanziario, la memoria collettiva della città non poteva non tornare al 2001, all’11 settembre.

Per una ventina d’anni, da allora, New York aveva goduto di un periodo apparentemente tranquillo, nonostante le profezie di nuovi ripetuti attacchi terroristici, confezionate ad arte per scatenare una «global war on terror» a dodicimila chilometri dall’America. Una tranquillità, tuttavia, sotto la quale covava una sorta di esitazione a tornare davvero alla normalità, a quella normalità che solo il cinema e la fantascienza, prima dell’attacco alle torri, avevano osato sfidare.

L’irrompere di una pandemia che uccide 33.800 newyorkesi in un anno e mezzo (2.753 i morti a New York l’11 settembre) è suonata come conferma dell’impossibilità di un ritorno alla città pre-11 settembre. Per arrivare ai giorni recenti dell’uragano Ida che scuote e inonda Manhattan con un’intensità e una violenza mai viste prima.

E sì, la vulnerabilità della città simbolo dell’America è il tema che sintetizza e racconta la trasformazione nell’arco di un ventennio del senso comune di un’intera nazione, di una superpotenza globale, l’unica rimasta dopo il crollo dell’Unione sovietica, costretta a fare i conti con la realtà che essa stessa si era ossessivamente e continuativamente impegnata a costruire per decenni demolendo il mondo bipolare.

Messo ko il Grande nemico, e con esso l’equilibrio che organizzava l’intero mondo, l’America si compiace di essere l’unica, la sola superpower. Per scoprire molto presto di essere, senza la vituperata Urss, un gigante dai piedi d’argilla. Gendarme globale, sì, ma con grande fatica a esserlo. E colleziona umilianti sconfitte e un numero spaventoso di morti e feriti, infliggendo sofferenze e distruzioni in paesi lontani.

La crisi del gigante è resa evidente dai tanti, diversi nemici che lo sfidano, nemici che la guerra fredda aveva evidentemente tenuto sotto controllo, compresi quelli più insidiosi, i terroristi «domestici», gruppi di un suprematismo bianco capace di mettere sotto scacco i palazzi del potere negli stati e nella stessa Washington.

Non va dimenticato che l’11 settembre è preceduto da un grave attentato a Oklahoma City, il 19 aprile 1995, con la morte di 168 persone, tra cui 19 bambini, e il ferimento di 672, un’esplosione così forte da essere udita fino a 89 chilometri di distanza. E se il nemico esterno, nelle sue diverse declinazioni narrative, svanisce dopo l’11 settembre, il nemico interno, dai fatti di Oklahoma City, in poi si rafforza, contribuisce a eleggere un presidente degli Usa, sfida a viso aperto il potere washingtoniano e s’organizza per tornare ad assumere il controllo del paese.

Nel vent’anni che separano dall’11 settembre, il processo trasformativo della società americana è rilevante. Si pensi solo al dato demografico. La popolazione, che nel 2000 è di 282 milioni di americani, supera in poco tempo la soglia critica dei trecento milioni per arrivare oggi a 332 milioni. In vent’anni nasce e si sviluppa l’equivalente di una «nazione» di cinquanta milioni di nuovi americani.

Non una semplice aggiunta a quella esistente, peraltro già ormai razzialmente e culturalmente molto variegata rispetto ai decenni precedenti. La componente bianca «caucasica» diventa minoranza in molte grandi aree metropolitane, con la prospettiva di diventarlo presto in tutta l’America.

La nuova chimica demografica influisce sulla politica, sulle sue dinamiche, domestiche e internazionali. L’elezione del primo presidente figlio d’un immigrato e nero è innanzitutto la conseguenza della trasformazione demografica e dei cambiamenti nei rapporti di forza tra le varie componenti demografiche. E la successiva elezione di Donald Trump è la reazione evidente della componente bianca a quella che avverte come una crescente minaccia al suo dominio per secoli indiscusso.

L’America, con le nuove ondate d’immigrazione, diventa dunque nazione mondo, importando al suo interno molte delle contraddizioni e delle tensioni che attraversano il nord benestante e il sud sfruttato e povero del pianeta.
I conflitti in terre lontane, iniziati sull’onda dell’11 settembre, diventano sempre più «fuori luogo» per un’opinione pubblica cambiata in vent’anni e assorbita dalle vicende interne di un paese diviso. Il ritiro dall’Afghanistan segna il ritorno a una dimensione realistica della potenza americana in un mondo anch’esso
completamente trasformato in vent’anni.

Un ritiro che non cancella errori e orrori. Ma riavvolge il nastro della storia, riportando l’America e il mondo a doversi confrontare con l’eredità e le conseguenze della fine della guerra fredda, troppo frettolosamente archiviata come la vittoria di una parte sull’altra.