Un uomo che faceva da addetto di pulizie nel quartiere in cui viveva a Napoli, ha provocato la morte di un bambino in una delle case in cui lavorava. Pare (secondo le sue dichiarazioni rilasciate agli investigatori) che avendolo tenuto in braccio sul balcone della casa, l’ha lasciato poi cadere.

Perché? Cosa ha lasciato cadere? Il bambino, se stesso, la vita, un oggetto che lo inquietava? È stata una caduta o un volo improbabile? Il gesto è stato dettato da odio, da amore folle, da angoscia, da una drammatica perdita di senso diventata distacco totale dalla realtà?

Qualsiasi sia la spiegazione che l’omicida, sofferente di “disturbi psichiatrici”, darà, non lo sapremo mai davvero. Il gesto compiendosi ha cancellato la sua significazione.

È possibile che con il tempo l’uomo possa riannodare in qualche modo il filo spezzato della sua esperienza che ha causato il suo gesto, ma una spiegazione che possa personalizzare la morte di un bambino affacciato sulla vita con fiducia non la si avrà. Il bambino ucciso è caduto nello stesso modo in cui è caduto il senso dell’esistenza nella psiche dell’uccisore in una fase decisiva della sua lontana prima infanzia. In entrambi i casi la catastrofe è accaduta in assenza del soggetto che l’ha solo subita, senza poter esperire il fatto che accadeva.

Nello scorso giugno a Ardea (Roma), un uomo che aveva avuto un TSO e viveva da un anno chiuso in casa, ha ucciso, usando la pistola del padre morto, due bambini e un anziano. Sull’onda emotiva creata dal tragico atto, il 30 Luglio è diventata legge una disposizione che consente al sindaco di comunicare al prefetto i nomi dei sottoposti a TSO a causa di patologie in contrasto con l’idoneità psichica per il porto d’armi. A parte il fatto che l’arma usata dall’omicida di Ardea non era registrata a nome suo, la norma è superflua perché l’idoneità è stabilita da una commissione di psichiatri. Sarebbe più logico che il rinnovo dell’idoneità avvenisse a intervalli più ravvicinati (attualmente l’intervallo è di 5 anni) e la sua concessione diventasse più difficile, obbedisse a criteri severi.

La disposizione è discriminatoria, si fonda sul pregiudizio che chi patisce una sofferenza psichica grave sia molto più incline degli altri a compiere omicidi se in possesso di armi. Non esiste nessuna correlazione basata su dati reali che testimonia a favore di questa tesi, al contrario la vita reale ci dice che uccidono tipicamente persone implicate in contesti sociali violenti o soggetti che avendo compresso violentemente il loro spazio psichico (per non provare dolore e restare coesi) vivono conformati a tutti i luoghi comuni della “normalità”, finché non esplodono catastroficamente. Tra i detentori di armi per motivi professionali (poliziotti, guardie giurate, militari) ci sono casi allarmanti di individui che apparentemente “al di sopra di ogni sospetto”, sono in realtà mine vaganti.

Chiediamo ai “pazzi” (le persone che mostrano al mondo la carne nuda della loro soggettività sanguinante) di farsi carico della violenza insensata che abita il mondo, perché non vogliamo pensare al modo irragionevole di vivere le nostre relazioni, il nostro distanziarci affettivamente e, al tempo stesso, pestarci continuamente i piedi perché non ci vediamo, riconosciamo tra di noi.

I “pazzi” possono uccidere quando cadono nell’abisso della loro passione lacerata, il che capita di rado checché ne pensiamo noi, gli automi “normotici” uccidono, sempre più frequentemente, perché vuoti di passione (commettono la grande maggioranza dei femminicidi e le stragi di ogni stampo).

Dove possiamo collocare l’attacco del drone americano che, vendicando l’attacco terroristico a Kabul, ha ucciso degli innocenti? Che motivazione, significato possiamo attribuire alle uccisioni di massa come “danno collaterale” (incluso lo sterminio dei migranti), diventate sempre di più ammissibili in tempo di “pace”?