Erano 382 i centri di detenzione clandestina attivi in Argentina durante gli anni della dittatura militare che dal 1976 al 1983 ha fatto scomparire 30mila persone. L’8 gennaio scorso è stata scoperta una villa di proprietà di uno dei torturatori della marina, Fernando Enrique Peyón, utilizzata per spostare i detenuti e creare un diversivo per dargli una speranza, prima di consegnarli alla morte.

La casa è stata ricondotta alla Escuela Mecanica de la Armada, meglio conosciuta come Esma, a nord della capitale Buenos Aires, in quegli anni il più grande centro di sparizione forzata. Prima della scoperta si pensava che l’unico distaccamento del centro di detenzione della marina fosse l’isola El Silencio, di proprietà ecclesiastica. Le persone sequestrate solo dal 1976 al 1979 sono state circa 5mila e solo il 10% di loro è sopravvissuto.

Le ricerche e il riconoscimento dell’immobile sono avvenuti grazie al lavoro d’inchiesta del giornalista della testata argentina La Retaguardia Fernando Tebele. Carlos Lordkipanidse, Blanca García de Firpo e Liliana Pellegrino, tre sopravvissuti, sono arrivati fino a General Pacheco, la provincia in cui è stata localizzata la villa, per fare un sopralluogo.

«Quando Fernando mi ha mostrato le foto della casa non ero sicura – racconta Liliana Pellegrino al telefono -, così mi ha proposto di andare a vedere se mi ricordassi meglio». Liliana Pellegrino, conosciuta come Lita, militava negli anni ’70 con la Juventud Peronista (Gioventù Peronista) insieme al gruppo rivoluzionario di estrema sinistra dei Montoneros. Nel suo quartiere parlava di politica, giustizia sociale e diritti umani. Di giorno distribuiva volantini agli angoli delle strade. Di notte si riuniva clandestinamente con i suoi compagni. Quasi tutti desaparecidos, poi. Oggi vive a Stoccolma.

Ha accettato subito di andare in Argentina per il sopralluogo?

Appena sono arrivata, ho voluto incontrare prima Victor Basterra, un altro sopravvissuto, che ha contribuito moltissimo nelle testimonianze durante i processi. Sono andata al processo della contraofensiva in cui doveva testimoniare. Durante la sua testimonianza parlava di due persone, Jorge Pared e Sara Ponti, non sapevo chi fossero, ma capii tutto quando disse i loro nomi di battaglia: il Pate e la Gringa.

Chi erano?

Due compagni che erano proprio nella villa il giorno in cui c’ero anch’io. Sentendo questi nomi, mi sono ricordata del posto, del momento, di loro due seduti all’ombra di un grande albero. Ma ancora non ero del tutto sicura che parlassimo delle stesse persone, quindi sono andata alla ricerca di foto e mi sono resa conto che sì, Victor stava parlando proprio delle stesse persone che io avevo incontrato. Poi Fernando Tebele mi ha accompagnata lì. Questo ha aperto un varco nella mia mente: l’albero, la casa, la piscina.

Com’è stato entrare lì dentro?

Davanti all’entrata della casa ho detto a Fernando: “È molto simile a ciò che ricordo, anche la piscina, ma l’albero dove stavano i due compagni non è questo qui, era a sinistra della piscina: è un albero molto vecchio, con un tronco molto grosso”. Lui mi ha risposto di fare un giro, di guardarmi meglio attorno, mentre si sarebbe occupato di distrarre le persone che stavano all’interno. Mentre loro parlavano, mi sono avvicinata e l’ho visto. Era proprio quell’albero, esattamente a sinistra. È come se mi si fosse aperta una porta nella memoria. Avevo tutto davanti a me, davanti agli occhi. E credo che se non l’avessi visto di persona, se l’avessi soltanto ascoltato attraverso il racconto degli altri compagni sopravvissuti o guardando le foto, forse non avrei avuto dei ricordi così nitidi.

Che ricordi ha della giornata alla villa?

Non ricordo di preciso che giorno fosse, ricordo che faceva molto caldo, poteva essere febbraio. Forse una domenica, perché c’era la gara delle auto in televisione. Ero in libertà vigilata. Ero a casa con i miei due bambini. Quando sono arrivati, mi hanno detto solo di prenderli e di andare con loro, che avremmo passato una bella giornata in una villa con la piscina. Siamo stati lì alcune ore, forse sei. Sotto l’albero, che poi ho riconosciuto quando ci sono tornata, c’era una grande ombra. Appena entrata ero molto tesa. C’era mio marito e gli dissi che i bambini dovevano stare all’ombra perché faceva molto caldo. Mi sono seduta con loro proprio accanto al Pate e alla Gringa.

Poi cos’è successo?

Lei mi guardava, ma non mi disse una parola. Visto che c’erano i bambini ci scambiavamo solo dei sorrisi. A un certo punto mi ha chiesto che ne pensassi di quella situazione. Ero molto pessimista e le dissi che era assurdo, perché loro erano i padroni della nostra vita e della nostra morte. Poi ho preso i bambini per portarli dentro. Avevano due anni la più grande e quasi uno il maschio. Entrando in casa sono scoppiata in lacrime: c’erano tutti i miei mobili. Quelli che i militari avevano rubato al momento del nostro sequestro. Ho riconosciuto il mio frigorifero, la televisione, la culla dei bambini. È stato orribile.

Rivedere questo posto le ha fatto ricordare i momenti alla Esma…

Li ricordo ogni volta che si parla di quegli anni. Il momento peggiore è stato quando mi hanno presa. Ero con il mio bambino di 24 giorni. Hanno preso anche lui, anche se dopo 48 ore lo hanno liberato e consegnato alla mia famiglia insieme a mio cugino Cristian. Lì dentro mi hanno torturata come facevano con tutti. Io però avevo partorito da poco. Con le torture si riaprirono le ferite del parto. Ricordo che perdevo moltissimo sangue, avevo la febbre molto alta. Ogni volta che ne parlo, anche adesso, è un trauma. Il peggiore della mia vita.

Che ha fatto quando l’hanno liberata?

La mia libertà è sempre stata una libertà vigilata. Anche quando è tornata la democrazia nell’83. Un giorno venne un gruppo di persone, si presentarono come militari dell’esercito. Non erano del gruppo della Esma che ci teneva sotto controllo. In quel momento abbiamo capito di essere in pericolo. Non sapevamo perché, ma sapevamo che dovevamo andare via. Ero con mio marito. Abbiamo chiesto aiuto per scappare. Ci hanno dato una mano le Madri di Plaza de Mayo e quelli del Servicio Paz y Justicia. Due giorni prima di partire ho ricevuto la visita di un tenente della Esma. Mi disse che anche se era tornata la democrazia, continuavano a osservarci. Siamo arrivati prima in Brasile e poi in Svezia, dove siamo stati accolti dopo che l’Onu ci ha dato l’asilo politico.

A distanza di così tanti anni, qual è il suo impegno nel lavoro di “Memoria, Verità e Giustizia” contro i colpevoli di quell’orrore?

Sento il dovere di testimoniare ogni volta che ne ho la possibilità, affinché la verità venga fuori. Lo devo ai compagni che non ce l’hanno fatta. Anche nella villa, nel momento in cui sono entrata, è come se la loro memoria avesse preso vita. È questo il mio impegno principale.