Serve una «operazione verità» sul progetto di autonomia differenziata. Fin qui andato avanti sulla base di «una trattativa quasi del tutto segreta», ha detto ieri il presidente della Svimez Adriano Giannola. Che ha chiuso la prima giornata di audizioni della commissione parlamentare per le questioni regionali. La commissione ha deciso di ripetere l’indagine conoscitiva sul processo di attuazione del regionalismo differenziato, già svolta sul finire della precedente legislatura.
Rispetto ad allora le parti politiche sono cambiate. Se un anno fa era il Pd a spiegare, con il sottosegretario Bressa – del resto artefice dell’avvio del processo di autonomia rafforzata – che al parlamento spetta «una mera ratifica» delle intese che il governo troverà con le regioni, adesso è il Pd a denunciare il tentativo del governo di scavalcare le camere quando immagina di rendere inemendabile la legge che recepirà tali intese.

Tra i professori ascoltati ieri non sono mancate opinioni diverse rispetto alle conclusioni della precedente indagine, che aveva definito la legge di attribuzione della maggiore autonomia come «formale» a contenuto «immodificabile». Per esempio il costituzionalista Felice Giuffrè ha proposto un «iter atipico» in grado di lasciare alle camere la facoltà di emendare il testo. Opinione non condivisa da altri sostenitori del progetto di autonomia rafforzata, come il professore Mario

Bertolissi, tornato alle audizioni in veste di costituzionalista dopo esserci già stato la volta precedente come rappresentante del presidente della regione Veneto Zaia. Il motore primo di questa riforma targata Lega.
Sostanzialmente favorevole anche il professore di diritto pubblico Giuseppe Marazzita, che ha spiegato come a suo giudizio l’avvio del regionalismo spinto in tre regioni (con il Veneto ci sono la Lombardia e l’Emilia Romagna) avrebbe effetti positivi anche nel rapporto delle altre con il governo centrale, «abbassando la conflittualità stato-regioni» visto che «la definizione delle competenze di stato e regioni passerà dalle sentenze della Corte costituzionale a una definizione contrattata, sulla base di un patto». In realtà è stato proprio il presidente della Corte costituzionale Lattanzi a far recentemente notare che ormai la conflittualità tra stato e regioni, dopo un boom degli anni 2012-13 seguito alla riforma del Titolo V della Costituzione, si è assestata su livelli fisiologici grazie «all’azione chiarificatrice svolta dalla Corte» con i suoi giudizi in via principale.

Secondo il presidente della Svimez (l’Associazione per lo sviluppo dell’industria nel Mezzogiorno custode di decenni di cultura meridionalista), il regionalismo rafforzato è in realtà una riforma istituzionale «non confessata ma evidente». «Non ha nulla a che fare con il federalismo, che infatti non viene nemmeno evocato nel “contratto di governo” – ha spiegato Giannola -, si tratta di un caso di sovranismo regionale, le regioni diventeranno stati secondo un modello confederale». Nessuna possibilità che la riforma possa essere fatta senza costi per le altre regioni: «O lo stato aumenterà i debiti o diminuirà i servizi», ha chiarito Giannola. Aggiungendo che i numeri contenuti nelle bozze di accordo tra il governo e le regioni capofila «sono inesistenti». La Svimez ha infatti corretto la stima del residuo fiscale avanzata dalle tre regioni, che sono partite chiedendo indietro la differenza tra le tasse raccolte e la spesa pubblica sul territorio. Aggiungendo solo gli interessi sul debito pubblico pagati sul territorio, il residuo fiscale del Veneto passa da 12 a 4 miliardi, quello della Lombardia da 40 a 20 miliardi