Siccome è cosa nuova che Frank Zappa venga scelto come l’autore che inaugura il Festival Internazionale di Musica Contemporanea e siccome lo Zappa in programma è «fuori formato» rispetto a quello più conosciuto, c’è tutto il mondo, bello o brutto, comunque che conta, a sentire The Yellow Shark al Teatro Goldoni. La critica al gran completo, il pubblico dei non iniziati molto numeroso. Così la Biennale Musica quest’anno alla sessantaduesima edizione può respirare e compensa in anticipo le carenze di un cartellone piuttosto povero. Il Leone d’oro alla carriera resta assegnato a Keith Jarrett ma lui ha dato forfait per il concerto in solo e per l’incontro col pubblico. Duro colpo per il festival, doppia la soddisfazione per il successo della serata zappiana.

Serata di festa. Così la vuole il Pmce (Parco della Musica Contemporanea Ensemble) che interpreta – e mette in scena – l’opera di Zappa. Uno che sollecitava la teatralizzazione della sua musica, intendiamoci. A base di allusioni satiriche e sardoniche nei «pretesti» extramusicali che ispiravano molti suoi lavori. I solisti dell’ensemble romano e il loro direttore Tonino Battista lo prendono in parola e magari esagerano un po’. Usano il super-vocalista (e percussionista) David Moss unicamente come attore comico e intrattenitore. D’altra parte nel progetto originario, ripreso per intero nell’occasione per la prima volta in Italia, non risulta che fosse previsto altro per un vocalista. Fanno loro stessi i coristi, i ballerini, i performer clowneschi. Quando è il momento di G-Spot Tornado, il brano finale, lo suonano col giusto ardore e con la giusta secchezza di timbri, giusta per un’asprezza che scorre sottotraccia.

Poi, mentre Moss zuzzerella in platea, fanno il bis di un brano a suo modo danzante e festoso come se fosse La marcia di Radetzky al Concerto di Capodanno. Il pubblico ci sta e batte le mani a tempo. Tutto bene. Anche perché The Yellow Shark è un contenitore di musica di gran livello. Musica di un maestro del ‘900 che sta alla pari di quella di altri maestri più titolati secondo le accademie vecchie e nuove. Collage consequenziale, attraverso stacchi bruschi e ben calcolati e assai affascinanti di climi sonori e di contesti sonori. Per esempio. Da The Girl in the Magnesium Dress, gioiello sottile per plettri, tastiere e percussioni, delicato e concettuale, a Be-Bop Tango, a tutta orchestra con ritmo marcato e sapori bandistici. Diciannove movimenti formano l’opera. Brani scritti nell’ultimo anno di vita del grande compositore rock e avant-rock e ultra-rock e metarock e sinfonico e da camera, morto nel 1993, e brani precedenti arrangiati, tipo il celebre Uncle Meat.

Il contemporaneo per Zappa è eterogeneità di materiali ma non eclettismo, al di là delle apparenze. Parente stretto di tanti compositori «dotti», si trova a mettere tratti di «cerebralismo» nella sua produzione. Anzi, li mantiene sempre. Se melodizza lo fa in modo da sembrare un po’ «arido», non crede al sentimentalismo e neanche troppo nell’affettuosità. The Yellow Shark è un esempio perfetto, forse il più alto, della sua strategia.

I tre quintetti per archi, III Revised, None of the Above e Questi cazzi di piccione (titolo ricavato da una passeggiata in Piazza San Marco) e il sestetto e quintetto per fiati, Times Beach II e Times Beach III, sono prodigi di polifonie complesse e limpide dove si respira più razionalismo che lirismo. E Get Whitey per orchestra, forse il pezzo più bello, evoca Stravinsky e Varèse (i modelli più citati) ma fa venire in mente il più «mentale» di tutti, Pierre Boulez.