Quando in Spagna governa il Partito popolare (Pp), gli orologi vanno all’indietro. È accaduto con José Maria Aznar, premier dal 1996 al 2004 all’insegna del liberismo, e ora con Mariano Rajoy, al governo dal 2011. Alberto Ruiz Gallardòn, ministro di Giustizia, ex sindaco di Madrid, non proprio appartenente alla destra estrema del Pp ma forse candidato al ruolo di successore di Rajoy, ha annunciato che il consiglio dei ministri ha approvato ieri nuove regole in materia di aborto per cancellare quelle in vigore dal 2010 che permettevano di interrompere la gravidanza entro le prime 14 settimane.

D’ora in poi l’aborto sarà permesso solo in due casi: stupro e grave rischio per la salute della donna. Gli esperti sostengono che si tratta di un peggioramento anche rispetto al lontano 1985, quando si poteva abortire pure nel caso di fondati timori di malformazioni per il feto. La nuova legge è stata battezzata dal governo «Protezione dei diritti del concepito e della donna incinta».

Gli indicatori economici iberici dicono che forse c’è in atto una ripresina, tanto che le previsioni su Pil e debito sembrano indicare che la Spagna sta attualmente un po’ meglio dell’Italia.

E allora ecco che la destra spagnola sposta le sue attenzioni sul fronte dei diritti sociali e civili.
Prima il governo annuncia nei giorni scorsi provvedimenti contro la libertà di manifestare nei luoghi simbolo del potere ponendo limiti tout court alla libertà di azione di movimenti, come quello degli «indignados», e sindacati, ora attacca frontalmente la legislazione in vigore sull’aborto. E domani, chissà, annullerà la legge sui matrimoni gay voluta dai governi del socialista José Rodriguez Zapatero (2004-2011).

Rajoy avrebbe ben altro di cui occuparsi, a cominciare dalle tensioni in materia di unità nazionale che si verificano in Catalunya dove i nazionalisti al governo chiedono addirittura di fissare la data di un referendum per porre la questione dell’indipendenza della regione più ricca della Spagna. Evidentemente la destra spagnola usa l’antica tattica di spostare l’attenzione da un problema fondamentale a uno minore in grado di scatenare l’integralismo ideologico e reazionario in modo da preparare le elezioni politiche del 2015 all’insegna del giro di vite in materia di ordine pubblico e diritti. Poco importa che in Vaticano non ci sia Giovanni Paolo II (appoggiò tutte manifestazioni indette dalla Conferenza episcopale spagnola contro la politica sui diritti civili di Zapatero), bensì il mite papa Francesco, ovviamente fedele ai principi cattolici ma non disposto a scatenare riflessi da crociata quando si parla di aborto e di autodeterminazione della donna in materia di nascite o di unioni civili e matrimoni per coppie omosessuali.

Se le cose andranno come vuole Rajoy, che ha la maggioranza assoluta in Parlamento, è probabile che presto avremo un fenomeno nostalgia per gli anni di Zapatero, il teorico del «socialismo delle libertà» messo con le spalle al muro nel 2008 dall’inattesa crisi economica internazionale. Proprio in queste settimane l’ex premier socialista ha fatto la sua ricomparsa in pubblico con molta discrezione a Madrid per l’uscita del suo libro Il dilemma. 600 giorni di vertigine in cui racconta i retroscena delle pressioni subite dal Fondo monetario internazionale, dalla Banca centrale europea e dalla cancelliera Merkel per gettare la spugna e chiedere aiuti internazionali. Scelta che non fece, avviando però una dura politica di austerity dopo anni di boom economico. Sul piano dei diritti, Zapatero lasciò invece democrazia, libertà e diritti come la Spagna non aveva mai conosciuto.