Il cotone è il «maiale» della botanica: non si butta via niente. In primo luogo dalla fibra, ma anche dai semi e dalle sue bucce, dai fusti e dalle foglie. Abbigliamento e tessuti per la casa rappresentano l’84% del consumo di fibra di cotone; il cotone per uso industriale (come il materiale medico) copre il 10% mentre il non-textile il 6%.

DA UNA BALLA DI COTONE (circa 230 chili) si possono ricavare: 215 paia di jeans, 249 lenzuola, 765 camicie da uomo, 409 camicie da uomo sportive, 690 asciugamani da bagno, 1.217 t-shirts, 1.256 federe, 2.104 boxer, 2.419 slip da uomo, 3.085 pannolini, 4.321 calzini a metà polpaccio, 6.436 slip da donna, 21.960 fazzoletti da donna, 680.000 batuffoli di cotone.

I maggiori produttori di fibre sono nell’ordine: India, Cina, Stati Uniti, Pakistan, Brasile, i paesi dell’Africa francofona, Uzbekistan e Turchia: complessivamente questi paesi producono l’88,7% del cotone mondiale. La produzione mondiale ammonta a 26,43 milioni di tonnellate di fibra (equivalenti a 15 magliette per ogni individuo sul pianeta) su un’estensione globale di 33,57 milioni di ettari (una superficie pari all’Italia) e determina un fatturato annuo intorno ai 30 miliardi di dollari, dei quali dai 2 ai 3 miliardi spesi per i pesticidi, monopolizzati da dieci multinazionali che controllano il 75% del mercato mondiale.

A livello globale, le scorte sono in forte surplus: nel periodo 2014-2015 sono state valutate in 19,49 milioni di tonnellate. La Cina ha accelerato il suo livello di scorte passando da 9,61 milioni di tonnellate nel 2013-2014 a 12,07 nel periodo 2014-2015 (un incremento del 25,6%). In tre anni la Cina ha sestuplicato le sue scorte e si prevede un ulteriore incremento, pari allo 0,7%. I paesi che fanno maggiori scorte di cotone sono nell’ordine: Cina, India, Brasile, Stati Uniti, Turchia e Pakistan: complessivamente questi paesi mettono da parte l’84,6% del cotone mondiale.

AL FINE DI COMPRENDERE le intricate questioni relative al commercio del cotone bisogna anche analizzare separatamente due settori fondamentali, connessi tra di loro, ma non coincidenti: da un lato la produzione e lo scambio della fibra di cotone, dall’altro la lavorazione e la confezione, cioè il settore tessile. Spesso con il termine cotone si sovrappongono i due settori mentre è opportuno tenerli ben distinti. I due processi, infatti, presentano problematiche molto diverse sia nelle fasi di produzione sia per quanto concerne le modalità di scambio, le politiche economiche e gli accordi commerciali.

PUR OCCUPANDO SU SCALA mondiale meno del 3% delle superfici agricole la coltivazione del cotone impiega quantità eccessive di pesticidi e insetticidi, causa di gravi impatti ambientali, oltre che per la salute dell’uomo. A ciò va aggiunta l’enorme necessità d’acqua di questa coltura: il cotone svuota i fiumi come nessun’altra coltivazione al mondo.
Anche la produzione tessile presenta numerose criticità, che riguardano da un lato gli impatti ambientali delle fasi del processo e, dall’altro, il rispetto dei diritti dei lavoratori.

Il commercio del tessile fa il giro del mondo: può succedere che il cotone, proveniente dall’Uzbekistan, venga filato in Turchia e che il tessuto, completato in Italia, venga stampato in Francia con colori cinesi. Nel corso del confezionamento possono essere poi utilizzate fodere inglesi e bottoni provenienti dall’Amazzonia. Infine il prodotto finito può essere esportato in Gran Bretagna, negli Stati Uniti e in Australia.

L’OSSESSIONE TUTTA occidentale per jeans a basso prezzo contribuisce a perpetuare le terrificanti condizioni di lavoro delle fabbriche del Bangladesh e a mantenere in schiavitù gli uzbeki. L’industria del cotone è sempre stata accusata di violazioni dei diritti umani. La paga mensile di un lavoratore del Bangladesh è inferiore al prezzo che un occidentale paga per un paio di jeans: circa 60 euro al mese. Non meraviglia allora che le maggiori aziende di abbigliamento si stiano spostando lì. La verità scandalosa è che la buona parte dei lavoratori nell’industria mondiale della moda non può permettersi di vivere con dignità perché guadagna meno di cinque dollari al giorno, in un settore che muove miliardi di dollari all’anno. In paesi come Uzbekistan, Pakistan e India, accanto allo sfruttamento lavorativo si aggiunge lo sfruttamento del lavoro minorile, una pratica ancora molto diffusa.
La produzione mondiale di cotone biologico è stimata in 116.974 tonnellate annue (poco meno dell’1% della produzione globale di cotone). Tra i diciannove paesi produttori l’India ha raggiunto il 74,3% del totale. La Siria, un tempo secondo produttore al mondo, oggi è ferma.

PARADOSSALMENTE, I PAESI in via di sviluppo sono quelli che si stanno avvicinando con maggiore facilità alla produzione biologica proprio perché i costi di produzione del cotone tradizionale (soprattutto l’acquisto dei prodotti chimici) sono proibitivi. Una coltivazione biologica risulta più adeguata alle loro possibilità: il cotone organico, grazie alla riduzione degli impatti ambientali, genera reddito e, nello stesso tempo, crea lavoro. Inoltre, l’organico permette ai rivenditori e ai consumatori di migliorare direttamente la vita delle persone che lavorano nella catena di produzione. Ma i benefici del cotone biologico non sono solo teoria: un recente studio ha dimostrato come il cotone biologico sia più sostenibile (a livello ambientale, economico e sociale) del cotone convenzionale.

Molti brands si stanno impegnando in direzione del cotone organico (vedendo nel suo utilizzo un obiettivo di crescita aziendale). Tuttavia, la filiera affronta un problema importante: la carenza di offerta. La produzione, ancora molto scarsa, non tiene il passo con la domanda di biologico da parte dell’industria.

Sembra che il Sistema Moda si stia impegnando in una battaglia a favore dell’ambiente, con un’offerta straordinaria di prodotti di moda sostenibili. Ma è così o è solo greenwashing? La credibilità è un passaggio fondamentale con cui la moda deve fare i conti. Ma la sostenibilità da sola non fa la differenza nelle scelte del consumatore: deve essere declinata con lo stile. Il numero di brands che offrono prodotti in cotone bio è molto aumentato negli ultimi anni. Lo dimostrano aziende come C&A, la maggiore acquirente al mondo di cotone biologico o come la EDUN di Bono Vox, che ha un’etica ben precisa: produrre capi 100% made in Africa non per beneficenza, ma per dare lavoro alla gente. Da menzionare anche Patagonia, che usa interamente cotone biologico certificato e recupera gli scarti di cotone e gli scampoli dei tessuti raccolti negli stabilimenti di confezionamento in Cina e Malesia, risparmiando così centinaia di tonnellate di cotone che invece finirebbero in discarica.

ALTRE IMPRESE CHE LAVORANO il cotone bio hanno messo a punto sistemi online di tracciabilità della loro filiera produttiva sia per garantire la sostenibilità dei prodotti. Basti pensare all’innovativo sistema di tracciabilità ed etichettatura ecologica dalle sementi al negozio, messo a punto dai due giovanissimi fratelli inglesi di Rapanui. Punta tutto sulla trasparenza anche l’azienda spagnola IOU Project, che assegna un codice a ogni suo capo, allo scopo di rintracciarne i materiali, la manifattura e i volti di coloro che lo hanno realizzato. Punta infine alla tracciabilità e all’equosolidale Auteurs du Monde, progetto di Altromercato dedicato alla moda etica, che importa abiti e accessori da trenta comunità di artigiani, prive di accesso al mercato o soggette a sfruttamento in Asia, America Latina e Africa.