Editoriale

La solitudine del sindaco capo

Perché a Roma emerge solo un ceto politico di scarsa qualità? Perché il supporto amministrativo fiduciario di sindaci e governatori, cioè i più alti funzionari, erano personaggi ambigui, finiti nelle […]

Pubblicato circa 9 anni faEdizione del 29 luglio 2015

Perché a Roma emerge solo un ceto politico di scarsa qualità? Perché il supporto amministrativo fiduciario di sindaci e governatori, cioè i più alti funzionari, erano personaggi ambigui, finiti nelle cronache di mafia capitale? La personalizzazione senza partiti produce mostri, altro che modello-Roma, nuovo rinascimento.
Con la sua comunicazione politica volutamente priva di simboli di partito, Marino portava alle estreme conseguenze il racconto che nel corso degli anni ‘90 ha avuto un suo fascino, ma che era ormai ridotto a un chiacchiericcio spento: quello dell’uomo della società civile, garanzia di disinteresse e competenza.
Il suo slogan era non per la politica, ma per Roma. Un’integrale spoliticizzazione del messaggio era ricercata anche dal suo vice sindaco i cui manifesti si segnalavano per una dubbia creatività «Nieri non per caso», «Nieri, oggi e domani».

Il messaggio scolorito e spoliticizzato è in fondo la fotografia perfetta della condizione romana che mostra un’amministrazione senza politica, una progressiva subalternità del ceto politico alla ragnatela degli affari. Oltre alle trame illecite affiorate con le inchieste “Mafia Capitale”, c’è un più profondo rapporto di dipendenza che lega le amministrazioni capitoline e i grandi interessi. Lontani i tempi del Pci che combatteva la rendita urbana, che si mobilitava per la riqualificazione delle borgate e per politiche di programmazione urbanistica, le giunte di sinistra hanno consentito autentici sacchi di Roma, con il mattone come locomotiva di un effimero sviluppo.
Non solo con le politiche dell’immaginario (notti bianche) hanno inseguito i fantasmi di una città post-materialista, nella quale la dimensione estetica prevaleva sul sociale, la parata di stelle aveva la preferenza sulla questione delle abitazioni, della vivibilità delle periferie. Ma hanno consentito, con gli scambi tra modici servizi verdi destinati presto all’incuria e generose concessioni edilizie, che Roma diventasse una città infinita, con illimitate deroghe ai piani regolatori, con centri commerciali immensi ovunque disseminati.
Non avendo più partiti a loro sostegno, e quindi ritrovandosi privi di una potenza organizzativa autonoma che consenta di resistere alle pressioni, i sindaci sono esposti al vento dei media e del denaro. Gli inquilini dei palazzi del potere sono costretti a più miti consigli dai giornali di proprietà dei palazzinari, in grado di creare opinione e quindi di determinare le carriere politiche. Il fuggevole corpo elettorale e l’ossequioso staff personale che occupa le giunte, non conferiscono autonomia decisionale ma accentuano l’esposizione degli amministratori ai piani dei gruppi di pressione.

Il mattone e l’immaginario diventano i simboli delle politiche urbane prive di ogni progettualità e orientamento secondo un senso sociale. La fortuna dei sindaci dipende dall’amicizia con il grande concentrato di potere economico e mediatico operante nella capitale.
Nel luglio del 2000, per decidere la leadership dell’Ulivo, si tenne un vertice riservato in Sardegna tra Veltroni, un esponente della Margherita e l’imprenditore De Benedetti. Dal cilindro uscì il nome del sindaco Rutelli come sfidante di Berlusconi al posto del premier in carica Amato.
La politica presidenzializzata, che vende il mito del leaderismo assoluto, è in realtà debole, succube verso i giochi dei grandi interessi. Le stesse campagne di stampa contro i disservizi capitolini non nascono solo per denunciare il degrado che si espande, ma anche per assecondare la fame speculativa dei padroni dei media, che annusano il lucro di privatizzazioni a buon mercato.

Mentre in tanti parlano di sacche di socialismo municipale da smantellare con le privatizzazioni, l’evento nuovo di questi anni è proprio la crescita del numero di imprenditori, di uomini del commercio e delle professioni che si buttano in politica in vista di una città-azienda da conquistare, incuranti di ogni conflitto di interesse. La privatizzazione del potere è la vera anomalia del presidenzialismo municipale che sfiorisce nel deserto di una politica organizzata.
Quello che più colpisce nella decadenza romana è la difficoltà di varare una giunta di qualità nella capitale, con tre grandi università, con il centro nevralgico dell’amministrazione statale, con il mondo delle professioni, delle arti creative, dell’informazione. Il rimpasto di giunta non risolve questo deficit. Una metropoli in declino non si salva con assessori imposti da logiche interne al Pd e che accettano un incarico d’emergenza continuando a fare i parlamentari.
L’autunno di Roma, che ha avuto per sindaci i segretari della Margherita, dei Ds e poi del Pd interroga il senso decadente del ventennio. Consiglieri comunali che hanno le risorse e la possibilità politica per aprire sezioni territoriali personali, zone rosse come il Testaccio conquistate da ex Udc per condurre politiche familistiche di ascesa, il fenomeno di tessere false, il mercato delle preferenze svelano i costi corruttivi della personalizzazione della politica.
Il marziano Marino è solo un meteorite caduto per caso sulla capitale, ma il deserto etico-politico della città, e il marchio d’infamia di una sinistra subalterna ai signori dei media e del denaro, evoca altre responsabilità e solleva la questione capitale della rinascita di una sinistra critica e autonoma.

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