Vincitori e vinti. Da un parte, la stella di Boris Johnson che sale e si conferma, più forte e convinto di prima, primo ministro inglese. Dall’altra, la stella cadente di Jeremy Corbyn che lascia un Labour ristretto e disorientato.

Dopo quattro elezioni nazionali in quattro anni (3 generali e un voto europeo), gli inglesi hanno definitivamente messo fine a una brutta saga che stava lentamente sfumando verso il ridicolo. Con tempi un po’ più certi (probabilmente fine gennaio), ma ancora con strategie e condizioni tutte da definire, il processo di uscita del Regno Unito dall’Unione Europea sarà terminato. Questo era il messaggio che incarnava Johnson e su questo – soprattutto su questo – si sono espressi i cittadini inglesi.

Per i Conservatori non si è trattato di una vittoria a valanga, avendo ottenuto poco più di un punto percentuale rispetto alle elezioni del 2017 (da 42,4 a 43,6%). Tuttavia, complici il sistema elettorale, gli errori “tattici” delle opposizioni e le qualità delle singole leadership, la vittoria di Johnson assume – per così dire – un sapore “thatcheriano”: chiude una fase e al contempo, anche se confusamente, ne apre una nuova, dove il Regno Unito sarà chiamato a fare i conti con un mondo che è molto più inospitale rispetto a quello che aveva conosciuto prima di aderire all’allora Comunità Economica Europea.

LA MAGGIORANZA parlamentare conservatrice è la più ampia tra quelle controllate dai Tories dal 1987 a oggi e bisogna tornare proprio al 1979, cioè all’elezione di Margaret Thatcher, per trovare un risultato elettorale migliore rispetto a quello ottenuto giovedì scorso da Johnson.

I LABURISTI sono invece i primi e maggiori sconfitti di queste elezioni. Il partito guidato da Corbyn non è solo l’unico, tra le forze politiche principali, ad aver perso voti (-7,8 punti) e seggi (-59) rispetto al voto di due anni fa, ma si ritrova oggi con un gruppo parlamentare ridotto ai minimi termini e bisognerebbe risalire al 1935 per ritrovare un risultato più disastroso per i laburisti. Tra tutti i leader inglesi all’opposizione dal 1977 fino ad oggi, Corbyn è risultato quello più impopolare (solo il 16% degli inglesi si è dichiarato soddisfatto della sua leadership), incapace per il 45% dei cittadini nel riconoscere i bisogni della gente comune e solo il 20% era disposto a considerarlo un buon primo ministro in caso di crisi (un “caso” tutt’altro che ipotetico).

Insomma, la questione della leadership ha contribuito alla sconfitta ma non è stata decisiva. Le ragioni dell’insuccesso vanno individuate in altri due fattori, ben più rilevanti. Il primo si chiama Brexit. La campagna elettorale inglese è ruotata tutta attorno a questo tema, mentre il programma del partito laburista lo nascondeva a pagina 85 (su 107). Per questo motivo la vittoria di Johnson è innanzitutto una “vittoria di agenda”: perché è stato molto più efficace rispetto al suo rivale a trascinare l’opinione pubblica e l’elettorato sul suo terreno preferito, quello della Brexit e del significato “culturale” (o identitario) che si annida dietro la fuoriuscita del Regno Unito dall’Ue. Su una tematica così decisiva e divisiva, Corbyn ha preferito l’ambiguità, senza prendere una posizione netta a favore o contro un nuovo accordo o per un secondo referendum. E, in tempi di identity politics, l’incertezza identitaria sul tema centrale della campagna elettorale si paga a carissimo prezzo.

PROPRIO QUI ARRIVA il secondo fattore – fatale – che spiega la sconfitta del Partito laburista e, in misura minore, delle altre forze politiche anti-Brexit e di opposizione al populismo identitario di Corbyn. Il segreto della vittoria dei molti leader di destra più o meno radicale o conservatrice consiste nello slittamento del piano del confronto politico dalla dimensione socio-economica a quella culturale-identitaria. È un meccanismo rodato e funzionante che spinge una parte consistente della working class a sposare le ricette del sovranismo identitario e nativista, per cui la difesa dei propri interessi economici passa prima di tutto da un recupero dell’identità nazionale. Così i Conservatori sono riusciti a ottenere i loro maggiori successi proprio nei collegi dove maggiore è la concentrazione di classe operaia e di lavoratori a bassa qualifica minacciati dalla concorrenza internazionale. Corbyn ha provato – fallendo – a rompere questo incantesimo ma si è trovato rinchiuso tra i ceti borghesi, intellettuali, multiculturali delle grandi metropoli inglesi. Come ha ricordato ieri sul Guardian Gary Younge, negli anni ottanta «per trovare un seggio laburista bisognava cercare nei centri urbani impoveriti e nelle città fatiscenti con economie obsolete, oggi bisogna cercarlo in qualche enclave europeista altamente istruita nei paraggi di un’università». Finché la sinistra, a partire dal Labour, non riuscirà a rompere l’incantesimo sovranista, ogni sforzo di riscatto sarà vano.