Gli ultimi sette sono arrivati ieri a Tricase e i penultimi domenica a Santa Maria di Leuca, 115 persone a bordo di due barche a vela. Tra loro cittadini afghani, egiziani, siriani, iraniani, un uomo nato in Yemen e uno in Kirghizistan. Non c’è solo il mare di Lampedusa lungo le rotte del Mediterraneo che conducono i migranti in Italia. A ovest il Tirreno è solcato dall’Algeria in direzione Sardegna. A est si salpa dalle coste greche e turche con la prua rivolta a Puglia e Calabria, attraverso lo Ionio. Delle 29mila persone sbarcate fino al 31 luglio (oggi sono quasi 39mila) 657 avevano toccato terra in Sardegna, 24.998 in Sicilia, 2.332 in Calabria e 1.079 in Puglia.

Sulla rotta ionica si viaggia a bordo di velieri o pescherecci. Si approda in autonomia, spesso di notte. Da questo lato del mare non ci sono Ong. «In Salento arrivano dopo una traversata che dura tra i due e gli otto giorni, in base al luogo di partenza. Chi è stato in mare per poco tempo ha ancora le provviste di cibo nello zaino. Chi è rimasto di più in balìa delle onde è affamato, disidratato, presenta eritemi cutanei, escoriazioni da sole e sale. In autunno e inverno, ci sono casi di ipotermia», racconta Mimma Antonaci, portavoce della Croce Rossa di Lecce.

LE IMBARCAZIONI più grandi sono individuate prima che tocchino terra. Le motovedette di Guardia di finanza o Guardia costiera le conducono in uno dei porti salentini: Gallipoli, Otranto o più spesso Leuca. Alcune delle barche più piccole raggiungono la riva senza essere avvistate. In questi casi scattano i «rintracci a terra», le autorità cercano i migranti nelle zone limitrofe ai luoghi di sbarco. Ce ne sono stati a Castro Marina, Gagliano del Capo, Patù, San Foca, Torre Pali e Porto Selvaggio, splendida baia di un parco naturale dove per molti chilometri la notte è illuminata solo dalla luna e di giorno non ci sono lidi o strutture attrezzate.

«All’inizio siamo rimaste stupite, ci sembrava strano assistere a uno sbarco proprio lì. Invece da un’imbarcazione con bandiera italiana sono scesi un centinaio di migranti – racconta Arianna Tafuro, testimone dell’approdo a Porto Selvaggio del 20 giugno – Alcuni si sono messi in marcia verso la pineta. Ci siamo avvicinate agli altri per chiedere come stavano, se avevano bisogno di un medico o di acqua. Erano soprattutto afghani e pakistani. La maggior parte giovanissimi, molti minori».

Dal primo gennaio a ieri gli sbarchi in Salento sono stati 29 per un totale di 1.359 persone. Il più grande è avvenuto il 23 agosto: un peschereccio con a bordo 120 migranti è stato localizzato al largo di Leuca e indirizzato a Gallipoli. Numeri più alti della media che si registra da queste parti, ma che nulla hanno a che fare con quanto accadde nello stesso porto alla vigilia della notte di Capodanno tra il 2014 e il 2015. La Puglia era ancora scossa dal disastro del traghetto Norman Atlantic, distrutto da un incendio nel Canale di Otranto mentre trasportava da Igoumenitsa ad Ancona 505 persone (alla fine si conteranno 9 morti, 19 dispersi e 60 feriti). Nel Salento erano ospitati una sessantina di naufraghi greci, tedeschi, francesi e inglesi.

IL 30 DICEMBRE una telefonata avvisò le autorità che una grande nave mercantile carica di migranti era alla deriva al largo di Leuca. Sul posto arrivò un elicottero dell’aeronautica, tre militari si calarono dall’alto e presero i comandi, guidando la nave fino a Gallipoli. Sulla Blue Sky viaggiavano in 796. Erano partiti dalla Turchia, quasi tutti siriani.

«La provenienza di chi arriva sulle nostre coste riflette la situazione geopolitica più generale – continua Antonaci – Negli ultimi tempi incontriamo molti pakistani e bengalesi. Non hanno mai smesso di arrivare afghani, iraniani, iracheni e siriani. È da oltre dieci anni che vediamo questi sbarchi». Sbarchi di altro tipo interessarono la Puglia dal marzo del 1991 e per tutti gli anni Novanta. Navi, gommoni, barche di fortuna partivano dalle coste di Durazzo e Valona e attraversavano l’Adriatico. Trasportavano persone che spesso parlavano già la nostra lingua, con un’inconfondibile «r» arrotondata.

GLI ALBANESI che approdarono nella provincia di Lecce in quel periodo trovarono una terra molto diversa da quella odierna. Gli ulivi crescevano rigogliosi, sulle spiagge c’era posto anche a Ferragosto, strade e stazioni erano affollate soprattutto da giovani con tende e sacchi a pelo. Oggi la campagna salentina è diventata un grande cimitero di alberi che non danno più olive, sterminati dalla Xylella, rattrappiti nell’ultimo grido di dolore. Dal 2017-8 hanno chiuso 93 frantoi su 227 e la produzione di olio è crollata da 20 a 3,5 milioni di kg l’anno.

Ulivi secchi a causa della Xylella sulla strada tra Veglie e Porto Cesareo, foto di Giansandro Merli

La costa è travolta da un turismo agostano che ha i tratti di un’invasione: a Porto Cesareo durante le settimane più calde si sono registrate 200mila presenze al giorno; Gallipoli è diventata una specie di Ibiza; la grotta della Poesia di Roca ha una sbarra e un biglietto all’ingresso; a Otranto servono i sensi di marcia anche nel centro pedonalizzato. Vip di fama mondiale, l’ultima Madonna, si fanno fotografare tra i palazzi del barocco leccese, mentre davanti alle coste si affacciano le navi dei super ricchi: lo yacht di Bulgari e il palazzo galleggiante per crociere extralusso «The World», dove appartamenti privati hanno 320mila euro annui di spese condominiali. Le masserie che ospitavano concerti rock, ska e reggae fino all’alba sono diventate resort di lusso.

Una masseria è anche il luogo in cui i migranti sbarcati trascorrono la quarantena. Subito dopo l’arrivo transitano dal centro di primissima accoglienza Don Tonino Bello, a Otranto. I volontari della confraternita della Misericordia offrono tè caldo, biscotti, vestiario, assistenza medica. Le forze dell’ordine realizzano una pre-identificazione e separano i presunti scafisti. Tutti i migranti sono sottoposti a tampone. Entro 48 ore scatta il trasferimento nella Masseria Ghermi, un bene sequestrato alla mafia e situato appena fuori dalla tangenziale che circonda Lecce. È gestito dalla Croce Rossa. Il manifesto ha chiesto l’autorizzazione a visitarlo, ma Prefettura e ministero dell’Interno hanno risposto di no, «per ragioni sanitarie». Dalle informazioni raccolte, oltre a 25 senza tetto che vi risiedono stabilmente, all’interno possono essere ospitati fino a 230 migranti. La permanenza è strettamente legata al periodo di quarantena. Terminato l’isolamento sanitario le persone sono trasferite in altre strutture dove possono chiedere asilo.

SE LA CRISI AFGHANA facesse aumentare i flussi migratori, anche per un effetto domino sui paesi di transito, la rotta salentina e quella calabrese potrebbero registrare arrivi in aumento. Nei primi sette mesi di quest’anno erano 522 gli afghani giunti dal mare, 100 partiti dalla Grecia e 422 dalla Turchia. I profughi del «paese degli aquiloni» raggiungono l’Italia attraverso le due rotte ioniche, percorrendo a piedi quella che taglia i Balcani oppure nascondendosi nei camion che si imbarcano nei porti greci di Patrasso e Igoumenitsa diretti a Venezia, Ancona, Bari e Brindisi.

Arion in Italia è arrivato così, ormai molti anni fa. Correva il 2007 e quando mise la testa fuori si ritrovò nella città delle gondole. Per lui il Salento non è terra di sbarco, ma di approdo. Per due anni e mezzo è stato accolto in un progetto Sprar dell’Arci. «Sono fuggito dalla città afghana di Ghazni, sono di etnia hazara e rischiavo la vita – racconta – All’inizio non è stato facile in Italia, un paese con una cultura molto diversa. Poi ho imparato la lingua, ho preso la terza media e frequentato i primi anni di scuola superiore. Adesso lavoro in pasticceria e vivo in una casa in affitto, a Lecce». Arion ha 31 anni e una famiglia rimasta in patria. «Sono molto preoccupato. Abbiamo perso 20 anni sperando che un giorno sarebbe andato tutto bene. Invece la situazione è peggiorata: la Nato non ha risolto niente. Un mese fa è stato ucciso uno dei miei fratelli e poi tre cugini. I miei parenti sono in pericolo. Ho provato a chiedere l’evacuazione. Purtroppo non ci sono riuscito», dice sconsolato.

HAMED di anni ne ha 29 e l’evacuazione l’ha ottenuta. Nel 2015. Lavorava come interprete per l’esercito italiano a Herat ed è stato portato in Italia con la moglie. Da allora ha vissuto sempre a Lecce, prima in uno Sprar e poi per conto suo. «Ho studiato italiano perché in Afghanistan traducevo solo in inglese. Mi sono iscritto all’università. Ho preso la laurea come infermiere e poi ho trovato lavoro – ricorda – Non è stato semplice, ma qui abbiamo incontrato un popolo che vive in pace. Purtroppo da noi non va così».

Anche Hamed è preoccupato: i suoi parenti e quelli di sua moglie sono rimasti al paese, hanno fatto domanda per essere evacuati, ma non sono stati richiamati. Non hanno neanche tentato di raggiungere l’aeroporto di Kabul. «Lecce ormai è casa nostra. Siamo stati fortunati, ma bisogna aiutare chi è ancora in Afghanistan. E anche chi è arrivato qui da poco: servono corsi di lingua, progetti di integrazione, un aiuto almeno nei primi tempi», afferma. Entrambi condividono una priorità: «i ricongiungimenti familiari tra chi è in Italia e chi è rimasto in balìa dei Talebani».