Rapina continuata e aggravata, mai parola fu usata più a proposito, per definire quello che capita alle donne che lavorano. Per via di quel gap del 23% che esiste nel mondo tra il salario medio di una donna e quello di un uomo. Questo ha sostenuto Anuradha Seth, consigliera economica del Programma di sviluppo della Nazioni Unite (Undp). Un divario che non sarà facile colmare. Al ritmo attuale, avverte l’Onu, ci vorranno almeno 70 anni. Secondo dati dell’Oil, l’organizzazione internazionale del lavoro, le donne che lavorano sono il 49.6%, mentre gli uomini il 76.1%.

La notizia è forte, e conferma quello che si vive nell’esperienza quotidiana, che le donne sono più povere, guadagnano di meno. È incisivo soprattutto definire il gap come furto, rapina. Mette a fuoco che alle donne viene sottratto qualcosa di proprio, che appartiene solo a loro.

Che non consiste in una proprietà, in un bene acquisito, in un’eredità, insomma una qualche forma di ricchezza. Alle donne viene tolto quello che appartiene anche a chi non possiede nulla: il frutto della propria capacità di lavoro. Un fatto odioso. Non sarebbe fuori luogo neppure l’uso di una parola come sfruttamento.

Bisogna poi fare attenzione a non perdersi tra i dati. Secondo rilevazioni recenti Eurostat in Italia la di differenza salariale a svantaggio delle donne si è ridotta al 5.5%. Ma la statistica europea si basa sulla paga oraria, non prende in considerazione l’insieme della situazione lavorativa. Tra l’altro c’è da chiedersi come possano rientrare in questa statistica i tanti rapporti di lavoro non contrattualizzati, e a basso orario. In ogni caso l’osservatorio JobPricing, che prende in esame la retribuzione lorda annua nel settore privato, valuta la differenza salariale tra uomini e donne di circa 3000 euro l’anno, con in proporzione differenze maggiori tra operai e operaie che tra manager.

La stessa Anuradha Seth precisa che il calcolo è complesso. Include la sottovalutazione del lavoro delle donne, la gratuità del lavoro domestico, la minore partecipazione al mercato del lavoro. Le donne guadagnano meno perché lavorano meno ore retribuite, operano in settori a basso reddito, o perché a parità di lavoro sono retribuite di meno. In generale, l’Onu stima che per ogni dollaro guadagnato da un uomo, la donna guadagna 77 centesimi.

Le differenze tra paesi sono notevoli e sorprendenti. Tra i paesi membri dell’Ocse si va dal meno 5% del Lussemburgo al 36% della Corea del Sud. Ma anche il 18.9% degli Usa e il 17.1% del Regno Unito. Del resto, è proprio dal Regno Unito che viene uno delle più recenti e clamorose denunce di disparità salariale. La giornalista Carrie Grace, inviata della Bbc in Cina, si è licenziata quando ha scoperto di essere pagata di meno di colleghi con lo stesso ruolo. Le discriminazioni avvengono a tutti i livelli.

La disparità aumenta con l’età e con la nascita di figli. Si calcola che una donna perde in media il 4% dello stipendio rispetto a un uomo ogni volta che mette al mondo un figlio. Mentre al contrario per il padre a ogni figlio il reddito aumenta in media del 6%.

Rapina, sfruttamento sono i pilastri che tengono in piedi e anzi alimentano un sistema di potere pervasivo, il volto patriarcale del neocapitalismo, che sottrae alle donne il valore del loro lavoro. Riconoscerlo, averne consapevolezza, è il primo passo. Anche attraverso le denunce delle molestie sessuali, una pesante forma di intimidazione usata contro le donne. Molestie che non sono una prerogativa del mondo dello spettacolo, anzi. Denunciare, non subire i ricatti, lottare insieme è la strada per valorizzare il proprio lavoro e quello di tutte.