Elizabeth Warren e Cory Booker, due dei potenziali candidati alla presidenza nel 2020, e due senatori di ala fortemente progressista del partito democratico, hanno già annunciato che devolveranno in beneficienza le donazioni ricevute da Harvey Weinstein. Come loro i democratici Patrick Leahy, Martin Heinrich e Richard Blumenthal. E, mentre Variety si chiedeva «Sarà questo il finale hollywoodiano di Harvey?» il consiglio d’amministrazione della Weinstein Co. avrebbe deciso in giornata sul futuro ruolo nella compagnia del suo fondatore, padre spirituale e tutt’oggi potente azionista – forse la leave of absence annunciata giovedì non sarà abbastanza e Weinstein finirà fuori del tutto.

Dopo le ingloriose dipartite da Fox News di Roger Ailes e Bill O’ Reilly, la fine di un altro gigante del sistema mediatico USA è innescata da un esposè giornalistico –un articolo del New York Times in cui sono descritti episodi di molestia sessuale e accordi finanziari stipulati con impiegate e attrici perché tacessero sulle avance fatte loro dal papà della Miramax. «Come faccio a uscire da questa stanza il prima possibile senza inimicarmi Harvey Weinstein?» racconta di aver pensato Ashley Judd, presentatasi al suo albergo per una colazione di lavoro, dopo esserselo trovato davanti in accappatoio che le chiedeva se voleva guardarlo fare la doccia.

A differenza di Ailes e O’Reilly, due portavoce del conservatorismo politico più estremo e dell’immaginario che lo caratterizza, Weinstein è da sempre identificato con le cause liberal, un noto sostenitore di Obama e Hillary Clinton, e il cui film più atteso in listino 2018 è un documentario di Michael Moore su/contro Donald Trump. Si sa, il malcostume che ha permesso a «Harvey» (come a Ailes e O’Reilly) di abusare del suo potere, mettendo a disagio donne che lavoravano per lui o che speravano di farlo, sta nei corridoi della destra come in quelli della sinistra. In una dichiarazione di scuse pubbliche e «ai suoi colleghi», inviata al quotidiano newyorkese (che, dicono i suoi legali, intende denunciare per diffamazione), lui lo adduce un po’ anche a uno spirito del tempo «sono cresciuto negli anni ’60/’70». In effetti, se c’è una sorpresa, sta meno nei contenuti del reportage del Times, quanto nel fatto che ci sia voluto così tanto perché venissero a galla.

Non solo Weinstein è uno di quei tipi a cui basta uno sguardo per lasciarti una traccia di bava sul collo, le leggende sui suoi abusi –anche di natura non sessuale – sono parte del folklore hollywoodiano. Come le sedie scaraventate addosso ai sottoposti, le chiamate di urla nel cuore della notte (un amico sostiene che gli ha mandato all’aria il matrimonio riducendo la fidanzata all’esaurimento nervoso) e il leggendario «Weinstein glow» , cioè l’aria di improvviso benessere che aleggia per mesi sul volto dei dipendenti che se ne sono andati dalla sua compagnia, o sono stati costretti a farlo.

Il tempismo delle rivelazioni non si può dissociare dal clima di questo momento, un clima di culture wars e di intransigenza, diverso –e in questo non si può dargli torto- anche solo da quello di sette o otto anni fa, quando con The King’s Speech e The Artist, Weinstein ha vinto i suoi ultimi due Oscar. Ma in questo tempismo c’è una anche una componente più spietata –nell’era di Amazon e di Netflix, Harvey e la sua compagnia sono l’ombra di se stessi.

Il grosso del suo archivio è in mano della Disney o della nuova Miramax e, alla Weinstein Co., sono gli hedge fund e Wall Street a controllare tutto, e che hanno messo freno alla largesse e le impunità con cui Harvey e suo fratello Bob si facevano strada nella giungla degli Academy Awards. Nella dichiarazione di scuse inviata al NYTimes, Weinstein ha scritto che intende «imparare a conoscere meglio se stesso e controllare i suoi demoni». Concludendo che, nel periodo di allontanamento dalla compagnia, investirà tutti i suoi sforzi ai danni della National Rifle Association. Purtroppo c’è il rischio che i suoi assegni saranno rispediti al mittente.