«Letta presidente del Consiglio europeo? Sarebbe un bel colpo», Bersani tenta l’affondo rilanciando le voci su una possibile nomina dell’ex premier alla successione di Van Rompuy. «Ne parlano i giornali e qualche politico italiano – replica gelido Renzi – ma il suo nome non è mai stato fatto né nelle sedi ufficiali né nei pour parler. Mi sembra difficile che su tre presidenze della Ue due, quella della Bce di Draghi e questa, vadano all’Italia».

L’irritazione del premier è tangibile e del tutto comprensibile. Renzi è impegnato in una partita in cui la vittoria è probabile ma non del tutto garantita, quella per affidare a Federica Mogherini il ruolo di Alto commissario per gli Esteri nonché vicepresidente della Commissione. «Se il Pse ci chiederà di proporre un nome, ci troverà pronti», conferma Renzi, che evita di allargarsi e segnala che i «se» sono ancora moltissimi. In un simile frangente, la candidatura di Letta da parte dell’ex segretario del Pd finisce per sembrare un tentativo, goffo, di sgambetto, e paradossalmente indebolisce le quotazioni, in realtà già basse, di Letta.

L’ex presidente rottamato dal velocista fiorentino rischia così di uscire ancor più ammaccato, senza alcuna responsabilità personale, da una faccenda che somiglia alla sagra della goffaggine politica. Sulla carta la possibilità, della nomina di Letta alla successione di Van Rompuy era nota. Il posto è riservato agli ex premier. Quello italiano gode di notevole popolarità, soprattutto negli ambienti più rigoristi. Non dispiace affatto a Merkel ed è la pedina su cui punta Cameron per prendersi una rivincita sulla sconfitta subita con la nomina di Juncker. Non c’era però bisogno di spostare la vicenda sul fronte nazionale, col risultato di indossare giocoforza i panni del sabotatore. Non a caso, mentre i renziani accusano Bersani di fare sul fronte europeo lo stesso gioco che fanno Chiti e i senatori ribelli sulle riforme, Renzi definisce «sorprendente» il fatto che «ogni volta che si tenta di fare una battaglia in Europa, una parte minoritaria del Pd riapre questioni che sembravano chiuse».

Le due partite, quella europea e quella italiana, sono intrecciate per diversi motivi. Uno è che Renzi intende adoperare l’Europa come una clava per imporre le sue riforme in Italia: «C’è flessibilità, ma solo se facciamo le riforme». Un altro è che l’eventuale nomina di Mogherini sarà l’occasione per rendere il governo molto più renziano di quanto non sia ora, con drastico ridimensionamento dei centristi. Potrebbe essere l’occasione per togliere il Viminale ad Alfano (forse per sostituirlo con Minniti), che alcuni vedono già alla Farnesina. Più che improbabile. Agli Esteri Renzi vuole un fedelissimo, come Pistelli o Serracchiani, che però difficilmente lascerà la presidenza del Friuli. Qualche chance ha anche Marta Dassù, che vanta una lunghissima esperienza come viceministro.

Quasi certamente il rimpasto costerà la testa a Maurizio Lupi ai Lavori pubblici, che Renzi aveva tentato di eliminare già nei giorni della formazione del governo. Al suo posto potrebbe andare Luca Lotti, ma anche, in nome del costituendo partito-nazione, il socialista Nencini. Ipoteca pesante anche sul Muir, che potrebbe essere spacchettato lasciando l’Università a Giannini e affidando la Pubblica istruzione a un altro renziano doc, Roberto Reggi.

La partita è appena iniziata. I nomi potrebbero cambiare e quasi certamente alcuni cambieranno. Ma una cosa è già certa: alla fine la presa di Renzi sul governo sarà diventata assoluta. All’ombra tanto delle riforme quanto dell’Europa, infatti, il golden boy persegue un obiettivo meno confessabile: rimodellare a propria immagine e somiglianza il partito, il governo e le stesse istituzioni.