Si può criticare quanto si vuole la leadership cinese, per la sua nuova stretta sui media, per i modi poco opportuni con cui talvolta redime scontri interni o i dissidenti sgraditi o su come ha creato negli anni una diseguaglianza sempre più evidente nella propria popolazione, ma non si può negare la capacità di «preparare» i propri cittadini ad accettare situazioni apparentemente negative.

Da mesi, anzi ormai da quando Xi Jinping è arrivato alla presidenza nel 2012, il numero uno cinese infila in ogni suo discorso il concetto di «nuova normalità».

Cosa significava? Che la Cina non poteva continuare a crescere come negli anni scorsi: quella non era normalità, bensì anormalità, qualcosa di speciale, capace di creare miracoli e incubi in contemporanea.

La crescita cinese, a doppia cifra per quasi tutti gli anni 2000, ha consentito alla Cina di arrivare ad essere la seconda potenza mondiale, di creare una classe di super ricchi, di diventare potenza anche in termine di capacità di condizionamento della diplomazia e di assetti internazionali e soprattutto di elevare dalla soglia di povertà – consentendo una vita dignitosa – a milioni di persone.

Si è trattato di un processo che nel mondo occidentale ha impiegato secoli ad avvenire. Questa velocità ha creato degli scompensi, sociali e soprattutto economici. Un’economia troppo dipendente dalle esportazioni, proprio nel momento di crisi dei suoi maggiori acquirenti, l’Occidente e troppo basata su investimenti senza ritorno di grandi aziende di Stato.

Una crescita con la costante paura della bolla immobiliare, fatta di città fantasma e interi palazzi disabitati.

Il mercato interno stenta ancora, ed ecco che la nuova normalità invocata da Xi Jinping ha un senso: equilibrare la crescita, sfruttare il rallentamento per colmare le lacune, tentare di riformare settori economici, le aziende di Stato e redistribuire reddito.

Riformando parti di quello che costituisce quanto avanza del welfare, aumentando lo stipendio dei lavoratori e dei dipendenti pubblici (per evitare anche i fenomeni di corruzione di quest’ultimi) e tentare il cambiamento più epocale: cominciare a innovare a produrre conoscenza, per trasformare la propria produzione dal made in China al Designed in China (come testimoniano gli investimenti nella ricerca e nello sviluppo). Di questo rallentamento però se ne accorgeranno Russia, Brasile, Venezuela.

Paesi che grazie alla Cina avevano un mercato fiorente per le proprie materie prime e che ora dovranno rivedere i propri conti. Mentre la Cina tenta la sua ennesima trasformazione storica.