C’è un tema specifico, dirimente per il nostro futuro, che ha a che fare con la società della conoscenza, l’evoluzione tecnologica, il lavoro in una nuova epoca di automazione e conflitti globali. C’è poi un piano puramente immaginifico che la Cina – apparentemente così diversa e distante per i nostri occhi occidentali – sta scavando da tempo e con costanza.

In modo silenzioso, impercettibile, il modello cinese, un’economia pianificata ma inserita in un contesto globale e guidato da un partito unico, è apprezzato. Basti pensare alle sue declinazioni – politicamente parlando – con paesi più vicini alla nostra cultura, che pur mantenendo un’attrezzatura «democratica» fanno delle elezioni e del bilanciamento dei poteri degli obblighi necessari, ma risolti con estrema determinazione: si tratta di quelle che vengono chiamate le «democrazie illiberali».

Pechino nel corso dei tempi, e complice l’ascesa del confusionario Trump, ha guadagnato terreno proprio nella nostra immagine: ne tolleriamo ormai le storture, sottolineandone però i pregi, la lungimiranza. Ora immaginiamo che questo paese, la Cina, diventi anche leader nello sviluppo di quella scienza che avvicina le macchine all’uomo; e che questa scienza vada a sommarsi con un’altra, l’analisi millimetrica dei dati, il loro incorporamento in un unico gigantesco database. Se fosse possibile, potremmo avere delle telecamere talmente precise e sofisticate, in grado di riconoscere dal volto ogni persona e agganciarci ogni tipo di dato possa essere utile. In quel modo potremmo trovarci davanti a un sistema che potrebbe essere usato dalla polizia per «predire» dei crimini. Tutto questo è già ampiamente nel nostro immaginario, letterario e cinematogfrafico. In Cina, però, tutto questo esiste realmente, è già quotidianità per i suoi cittadini. I modelli predittivi sono già usati dalla polizia della regione cinese del Xinjiang, così come le prove fornite dall’Intelligenza artificiale sono già da considerarsi valide in alcuni palazzi di giustizia cinese.

Si dice che in Cina, lo ricorda Mei Fong, premio Pulitzer del 2007 e autrice di «Figlio Unico» (Carbonio editore), ogni vita valga come quella dei cani: un anno significa sette anni; questo perché i cambiamenti e le evoluzioni cinesi sono rapidissime, fenomeni capaci di sradicare precedenti eventi come niente fosse.

In poco più di 40 anni – dalle Riforme a oggi – il paese ha sollevato dalla povertà oltre 300 milioni di persone, è cresciuto a ritmi vertiginosi, perfino al 14 per cento a metà degli anni Zero. Fino al 2008 la Cina era considerata quasi esclusivamente per le sue caratteristiche di «fabbrica del mondo» grazie alla sua economia basata sulla manifattura e sulle esportazioni. Nel 2008, dunque, un’altra incredibile svolta: la crisi occidentale comportò la diminuzione degli ordini e così Pechino si vide costretta a mutare il proprio modello, spingendo tutto sulla qualità e sulla creazione di un vasto mercato interno.

Nel frattempo la Cina cambia ancora: il censimento del 2011 stabilisce per la prima volta una maggioranza di popolazione urbana; la trasformazione era compiuta. Nel 2012 diventa segretario del Partito comunista Xi Jinping, nel 2013 è nominato presidente della Repubblica popolare. La Cina imprima una nuova svolta: viene lanciato il progetto «Made in China 2025» un nuovo piano industriale che punta tutto su Big Data, Intelligenza artificiale, robotica e in generale sugli investimenti nelle nuove tecnologie. Pur nelle sue contraddizioni, la Cina si proietta nel futuro con l’intenzione di diventare la numero uno al mondo per quanto riguarda proprio l’Intelligenza artificiale. E con questa mossa, forse senza neanche pensarci, finisce per essere «interessante» o vicina, davvero, anche ai nostri occhi. Nello specifico, esistono vari documenti che «sistematizzano» questa volontà di Pechino: il primo documento nel quale si fa un esplicito riferimento all’Intelligenza artificiale è il «Tredicesimo piano quinquennale per lo sviluppo strategico industriale cinese». In esso si chiarisce che tra i 69 impegni principali del periodo tra il 2016 e il 2020 un ruolo rilevante sarà dato proprio all’Intelligenza artificiale.

C’è un secondo punto fermo, chiamato «Internet Plus», una specie di piano triennale – che dovrebbe vedere la propria realizzazione finale proprio nel 2018: si tratta di un trattato specifico sull’Intelligenza artificale: lo scopo è potenziare l’industria dell’Intelligenza artificiale in un motore capace di produrre centinaia di miliardi di yuan. Lo scopo del piano è portare la Cina a diventare una potenza digitale.
Il terzo documento è il Piano per lo sviluppo dell’industria robotica (2016-2020). In questo caso siamo di fronte a obiettivi ben precisi: lo scopo è creare entro il 2020 un sistema in grado di produrre 100mila robot industriali all’anno, portando la Cina al primato mondiale nel settore.

Il quarto documento si chiama proprio Intelligenza artificiale 2.0 ed è affiancato da un quinto piano dal titolo Sviluppo di una nuova generazione di industrie per l’intelligenza artificiale. Naturalmente la Cina prevede parecchi investimenti e ritorni in piani economici che ad ora arrivano fino al 2030. Lo scopo finale – naturalmente – è superare gli Stati uniti.

Il peso della Cina in questo mondo comincia a farsi sentire, oggi è il secondo investitore al mondo nel settore, dopo gli Usa. A Washington lo sanno bene: l’Association for the Advancement of Artificial Intelligence, associazione americana, per fare un esempio, l’anno scorso ha inrviato il proprio meeting mondiale, perché cadeva negli stessi giorni del capodanno cinese. Gli organizzatori non volevano rischiare: cambiarono data per avere tra i relatori proprio i cinesi.

Gli Usa rimangono ancora al primo posto in termini di investimenti e ritorno economico dei progetti legati all’Intelligenza artificiale, ma Pechino sta freneticamente correndo contro il tempo e non senza risultati. Nel marzo del 2017 la dirigenza del paese ha rilasciato un «piano per lo sviluppo dell’Intelligenza artificiale» a seguito di una Assemblea nazionale che ha visto raccogliere la sfida anche dal premier Li Keqiang.
Dal fondatore di Baidu, il più importante motore di ricerca cinese, fino al proprietario di Xiaomi, per arrivare al fondatore di Geely Automobile che ha rilevato la Volvo: si tratta di persone che hanno partecipato anche alle «due sessioni» a Pechino, l’appuntamento legislativo annuale del gigante asiatico. In quella sede istituzionale hanno provato a spingere sull’acceleratore, perché possano arrivare e al più presto fondi per la ricerca e l’applicazione di modelli di intelligenza artificiale.

Come sostenuto da Lei, membro dell’Assemblea nazionale, al quotidiano di Hong Kong South China Morning Post «al contrario di altre rivoluzioni tecnologiche quella relativa all’intelligenza artificiale può davvero traghettare la Cina alla leadership nel mondo della tecnologia». Da segnalare poi che non pochi accenni sono stati fatti riguardo l’impatto che la «AI» potrà avere sui sistemi di sicurezza locali e nazionali; una sottolineatura particolarmente gradita alla leadership cinese, tenendo conto che gli Usa si sono già mossi per evitare investimenti di Pechino in materia di sicurezza nella Silicon Valley.

Dopo l’approvazione di tutti gli spunti relativi all’importanza della «AI», specie grazie alla mole di Big Data che le aziende cinesi collezionano attraverso le proprie attività «consumer», sono arrivati anche i soldi.
Solo l’anno scorso la Cina avrebbe fomentato la ricerca con almeno 2,6 miliardi di dollari. Ma non è sufficiente, perché gli Usa ne avrebbero investito ben 17. Secondo una ricerca Pwc, entro il 2030 lo sviluppo dell’«AI» potrebbe incidere in modo significativo sul prodotto interno lordo del paese, grazie all’incremento della produttività, con la robotica, e all’aumento dei consumi.

Date queste premesse, e in attesa dei primi progetti cinesi capaci di costituire una vera e propria novità capace di uccidere momentaneamente il mercato, il mondo del lavoro e quello della finanza (in Cina come spesso accade di fronte a investimenti rilevanti da parte dello Stato si parla già di «bolla») sono già intaccati da questa «rivoluzione». L’uso di robot e di sistemi automatizzati sta già permettendo a molte fabbriche di sostituire i lavoratori, o almeno una parte di essi, risparmiando in costi e problematiche di natura umana (in alcune zone oggi un operaio cinese guadagna quanto un operaio in Brasile) e aumentando la produttività. E proprio in relazione al mondo del lavoro, alcuni proprietari di aziende che si sono convertiti alla robotica, spiegano la decisione adducendo l’ampio turn over dei lavoratori cinesi. Si tratta di un caso classico: in Cina i lavoratori che operano nell’ambito delle mansioni più modeste hanno – giustamente – poca fedeltà: sono sempre alla ricerca di più soldi e migliori condizioni (soprattutto per quanto riguarda straordinari, malattie e infortuni). Ma dato che il costo del lavoro in Cina è ormai molto più alto rispetto ai tempi della «fabbrica del mondo», i padroni, lo stato o i privati, sono passati alle contromisure. In alcune aziende i robot sono già utilizzati nello smistamento di materiali all’interno di magazzini. Come si ebbe a dire quando Foxconn annunciò l’acquisto di un milione di robot (settore nel quale la Cina è ormai grande produttore) «i robot, al contrario dei lavoratori, non protestano e non si ammalano».

A cosa porterà questa spinta governativa? Secondo alcuni osservatori a nuove e inquietanti diseguaglianze nella società cinese. Il digital divide sarà ancora più grande e comporterà una nuova divisione in seno alla società.
Allo stesso tempo, però, tutto questo muterà per sempre il paese, avvicinandolo al nostro immaginario. È diventata nota la somiglianza del sistema cinese dei «crediti sociali» – idea che mette insieme AI, Big data, sorveglianza, controlli fiscali e giudiziari – con la puntata di Black Mirror, la popolare serie distopica prodotta da Netflix e intitolata «Nosedive». In quell’episodio il «punteggio sociale» di una persona, dato dall’interazione «social», determina il destino economico, lavorativo dei cittadini. In Cina stanno pensando a qualcosa di simile: allora a questo punto è giusto porsi una domanda dirimente. Se tutta questa ricchezza di dati che può arrivare dall’Intelligenza artificiale è in mano a uno stato autoritario, o simil tale, anziché ai privati, quanto l’avanzamento delle tecnologie sarà spinto dalla volontà di migliorare le condizioni di vita della popolazione e quanto invece sarà determinato dalla volontà di controllarlo?

Si tratta di una domanda che non va rivolta solo a Pechino, naturalmente; ma il tipo di società, quella cinese, nella quale si iscrivono queste «novità», costituisce una valida cartina di tornasole.
I cinesi dal canto loro sembrano osservare con attenzione quanto succede. Ci sono anche alcuni segnali importanti: esiste al momento in Cina una «new wave» di giovani scrittori di fantascienza il cui fulcro poetico è proprio l’indagine dell’impatto dell’AI e del modo di gestirla da parte del governo cinese, sulla popolazione. Non si tratta sempre di distopie: in alcuni casi la società prospettata da questi scrittori piega le tecnologie e i meccanismi di controllo sociale a un miglioramento delle condizioni di vista (come nel caso di un racconto nel quale si prevede l’esistenza di «robot confuciani» capaci di regalare una seconda vita alle persone anziane del continente cinese.

Naturalmente esistono esempi reali che ci raccontano un’altra storia: se la Cina è uno Stato dove la governance è sempre più associata al controllo sociale, a Pechino hanno pensato che – tutto sommato – al controllo sociale si possa venire «educati».  Pechino spiegherà al mondo che l’obiettivo di certe «sperimentazioni» nulla è se non il miglioramento delle condizioni di vita. Sappiamo bene, però, che questi strumenti sono ambiti (e lo sono anche in Occidente di sicuro) proprio perché consentono un controllo sempre più sofisticato dei comportamenti attuali; e con elaborate e sofisticate tecniche si può anche arrivare ad analisi predittive: avere una camera puntata per tutto il tempo passato – ad esempio – a scuola abituerà i cinesi a vivere fin da piccoli sottoposti a un controllo e a un monitoraggio costante dei propri comportamenti. Si tratta di qualcosa che esiste già ad Hangzhou, in Cina.