Certo, i premi Emmy, assegnati domenica notte a Los Angeles alle migliori produzioni televisive dell’anno hanno espletato la fondamentale funzione di autocelebrazione dell’industria, come gli Oscar, i Grammy e gli altri «award shows.» In epoca Trumpiana però i premi assumono inevitabilmente anche una ulteriore valenza, di aggregazione creativa e sguardo critico verso la politica imperante. Dopotutto le fiction veicolano da sempre il discorso culturale in modo più «profondo» della polemica politica, tanto più da quando la tv «di qualità» ha occupato in parte il terreno espressivo che era stato del cinema indipendente. Il primo dato acquisito nel Microsoft theater dunque è stata la conferma della nuova gerarchia nell’industria: i grandi del cavo e dello streaming hanno consolidato il monopolio con 85 premi contro i 16 dei vecchi network generalisti. La HBO ha tenuto testa ai concorrenti con 34 statuette, seguita da Netflix (27) e Amazon (15).

IL TRIONFO HBO è stato targato Game of Thrones, un dominio annunciato della serie kolossal che ha fatto la storia del piccolo schermo (già in corso d’opera il prequel ambientato mille anni prima) e che è stata salutata come tale. Trono di Spade aveva collezionato ben 70 nomination (nella sola categoria di migliore attrice, quattro su sette erano regine, principesse o guerriere di Westeros). Alla fine la serie di David Benioff e DB Weiss si è portata casa 10 premi, compresi quello per migliore serie drammatica e un migliore interprete maschile per Peter Dinklage (alias Tyrion Lannister). Non ha nuociuto alla HBO che avesse in scuderia anche Chernobyl, un secondo fenomeno globale che ha vinto 7 Emmy fra cui sceneggiatura, regia e miglior miniserie. Nell’accettarli, il creatore, Craig Mazin ha sottolineato come la critica alla disinformazione e all’omertà degli apparatchick di partito allora, sia del tutto applicabile all’attuale amministrazione americana.

MA GLI ELETTORI – i 24 mila iscritti alla Television Academy – hanno dimostrato di volere andare oltre la semplice canonica celebrazione per premiare programmi più di nicchia o avventurosi, primo fra tutti Fleabag (BBC/Amazon). Il ritratto di artista come giovane donna è stato uno degli oggetti più originali, stimolanti e divertenti degli ultimi paio di anni e gli Emmy hanno riconosciuto la sua creatrice, Phoebe Waller-Bridge, vincitrice in due categorie: autrice e attrice – come una delle voci più innovative del panorama odierno. Waller Bridge è autrice anche di Killing Eve (BBC/Hulu) vittoriosa nella categoria non protagoniste con l’Emmy a Jodie Comer.

GLI ALTRI MOMENTI salienti della serata sono stati il premio a Billy Porter per il suo personaggio (Pray Tell) in Pose (FX). Il primo vincitore afro americano gay ha fatto un appassionato discorso sotto gli occhi dell’autore Ryan Murphy. L’ovazione più assordante è stata però quella riservata dai 7 mila del Microsoft theater a Jharrel Jerome, il giovane attore che interpreta Korey Wise in When They See Us. La miniserie di Ava DuVarnay racconta il caso dei «Central Park Five», i cinque adolescenti neri ingiustamente condannati per stupro nel 1989 prima di venire prosciolti dall’accusa da un reo confesso nel 2001. Wise, all’epoca sedicenne, scontò ingiustamente 13 anni di penitenziario prima divenire liberato. La vittoria di Jerome, alla presenza in sala dei cinque veri protagonisti della vicenda, è stata il momento clou della serata.

E NESSUNO qui ha scordato che all’epoca l’attuale residente della Casa bianca intraprese una pubblica campagna per sollecitare la condanna a morte dei cinque innocenti. Sul tappeto rosso intanto Laverne Cox (di Orange is the new black), accompagnata da un avvocato del ACLU (American civil liberties union) ha denunciato l’abrogazione delle protezioni dei cittadini trans – ora passibili di espulsione dalle forze armate e a rischio perdere le protezioni sul lavoro. La sua collega OITNB, Diane Guerrero ha parlato di come i suoi genitori colombiani sono stati deportati quando era ancora bambina, la realtà odierna di migliaia di minorenni in regime di tolleranza zero delle leggi xenofobe di Trump. Se il presidente insomma fa del suo meglio per dirottare la narrazione nazionale sui binari di una distopia nazionalista ed identitaria, gli storytellers di Hollywood si fanno sempre più interpreti una narrativa antagonista.